Le app che permettono di seguire la posizione dei figli sembrano in teoria una forma di controllo. Ma in realtà sono più una gestione formale dell’ansia di chi controlla. E hanno un limite: abbiamo bisogno della presenza
Vivere al tempo della geolocalizzazione affettiva. Il tempo in cui, per esempio, molti genitori si prendono cura dei figli adolescenti sapendo anzitutto dove questi figli si trovano nel corso della giornata. L’airtag, la app che traccia gli spostamenti, ma anche solo un messaggio inviato regolarmente. Ricevere la conferma che il quattordicenne è nel luogo in cui deve trovarsi, più o meno raggiungibile. E sentirsi rassicurati come quando controlliamo di avere le chiavi in tasca.
Oggi si parla spesso di genitori ipercontrollanti: «Non sanno staccarsi, non danno libertà». Ma non è per forza vero che non diano libertà. Il controllo che il genitore dell’adolescente esercita non riguarda, nella maggioranza dei casi, una mancanza di movimento («Devi restare in casa sotto il mio sguardo vigile»), ma è un controllo appunto tecnologico. Si dirà: un controllo da Grande Fratello, dunque asfissiante. Una libertà vigilata, un braccialetto elettronico. Un monitoraggio: se tutti i segnali sono “nella norma” — posizione, orari, o anche solo risposta a un messaggio — allora si può stare tranquilli.
Dove sei o come stai?
Se ci pensiamo, però, non è realmente un controllo, è più una gestione formale dell’ansia di chi controlla, e può celare la tentazione al disinteressamento. Nel momento in cui so dove sei, so anche che posso occuparmi di altro, fare quello che devo fare senza pensare a te. Diventa un modo per semplificare una questione difficile. Come genitore ogni tanto ho la sensazione che davanti a un compito faticoso, come accompagnare un figlio nella crescita, proviamo a sostituire le emozioni con qualcosa di più gestibile, come sapere se ha preso il tram giusto.
In questo modo rischiamo di confondere alcuni piani. So dove sei, dunque smetto di chiedermi veramente come stai. Smetto di trovare strategie furbe per capire cosa ti passa per la testa. Smetto di accogliere la tua inquietudine e di analizzare i tuoi silenzi.
C’è una situazione di cui ho saputo e che mi ha colpito, ve la racconto in maniera semplificata per ragioni di privacy. Una ragazza di quattordici anni, figlia unica, ha i genitori molto impegnati e spesso lontani per lavoro. Torna da scuola e trascorre il pomeriggio da sola. I genitori le scrivono regolarmente un messaggio, la chiamano.
Le chiedono se ha mangiato, se ha fatto i compiti. Ma non ci sono. La sera a volte rientrano tardissimo, magari la madre è proprio in viaggio, il padre arriva da una cena. La ragazza è già a letto. In quei casi vedrà un genitore qualche minuto, al mattino. Nei fine settimana, è impegnata in attività sportive o con gli scout. Tutto pare in ordine. Ma la ragazza ogni tanto tira fuori un oggetto tagliente e si procura dei tagli sulle braccia.
L’autolesionismo è un argomento molto studiato, che non analizzerò qui (ci sono gli psicologi per questo). Sappiamo che chi si ferisce lo fa per sentire qualcosa, e per coprire, con questa sensazione, un dolore emotivo. Non intendo suggerire che la solitudine della ragazza sia la causa dell’autolesionismo.
Dirò solo che venendo a conoscenza della vicenda ho pensato che la ragazza starebbe forse meglio in un collegio. Non perché io sia a favore dei collegi, ma perché almeno lì vedrebbe delle persone. Nella casa in cui vive tutto funziona ed è sicuro. Eppure nessuno c’è davvero. Uscendo dalla situazione specifica e da quello che evoca, l’aneddoto ha legami profondi con il modo in cui restiamo spesso soli (anche per scelta, anche da adulti) dentro la contemporaneità.
Cos’è davvero la cura
Forse lo scambio, la presenza, il tempo condiviso, la disponibilità e persino la noia dello stare con gli altri sono elementi per noi più essenziali di quanto crediamo. Ci affidiamo a un’idea automatica della cura, come se l’affetto potesse essere organizzato per messaggi, mappe, notifiche. È un approccio funzionale, ma prima o poi rivela la dimensione non umana.
La cura non è solo provvedere ed evitare il peggio. È accettare la fatica, il fastidio, il conflitto. È essere presenti nel tempo sprecato, nelle cene silenziose, nelle domeniche piovose in cui non succede niente.
Sappiamo amministrare il nostro denaro, gestire il tempo, ottimizzare le risorse e persino la nostra massa muscolare e gli allenamenti in palestra. Ma con gli affetti non possiamo usare la stessa logica. Sorvegliare non è amare. Possiamo sapere che l’altro non è in pericolo di morte, ma se non siamo mai presenti non possiamo condividere la sua paura al cospetto di un baratro.
Essere genitori è sempre difficile, ma dentro ogni tempo lo è in modo diverso. La domanda forse non è: «Dove sei?». La domanda è: «Dove sono io, per te?».
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