Andarci la prima volta era come un battesimo. Varcata la soglia, ci si trovava in un mondo parallelo. Ora quei locali stanno vivendo una crisi, radicata nella pandemia e nel cambiamento della cultura
Il rito battesimale di tutti gli adolescenti nati tra gli anni Ottanta e l’inizio del nuovo millennio consisteva nell’ingresso in una discoteca. Ottenere il permesso di andare a ballare coincideva con il sentore eccitante di essere entrati a pieno diritto in una fase di definitiva emancipazione dall’infanzia. Era la saturday night fever, così la chiamava John Travolta che per primo inaugura la semiotica dello spazio, le sue luci stroboscopiche, i divani in pelle, la funzione di rituale compensatorio dopo una settimana di lavoro.
A Milano, centro nevralgico della moda, della pubblicità, delle stazioni radiofoniche e soprattutto polo della cultura musicale emergente, la discoteca diventa presto il luogo in cui convergono le liturgie sociali. Raggiunto un apice tra il 1994 e il 1996, il numero di locali in città si sfoltisce, molti chiudono, altri aprono, vengono inaugurati, durano qualche stagione, poi cambiano nome e chiudono di nuovo.
Oggi quel sottobosco ha subito una definitiva battuta d’arresto. Qualche settimana fa Steven Basalari, proprietario della storica discoteca Number One, ha pubblicato un video sui social dal titolo «Le discoteche stanno fallendo». Basalari riconduce la provvisoria perdita di incassi delle attività notturne all’esordio sulla scena del genere trap, inseguito dai gestori e dagli organizzatori delle serate al punto da aver saturato ed esaurito ogni altro tipo di offerta.
Generi nuovi
Le predilezioni musicali di solito si succedono, vivono dei veri e propri rinascimenti, capita che tornino inaspettatamente. Certo è che la trap si è imposta alla stregua di un panorama dominante, sostituendosi ai ritmi meccanici e scoordinati della techno e anche a quelli più esotici dell’electro-latino.
La trap, diversamente dal rap, è lugubre e contemporaneamente sboccata, martellante e nello stesso tempo indolente. Soprattutto si rivolge a un immaginario in prevalenza maschile e adolescenziale, quello dei cosiddetti maranza, che a Milano affollano le strade del centro e delle periferie, riconoscibili da una serie di simboli estetici sempre uguali: il cappellino con la visiera, la tuta acetata, vistose catene al collo e naturalmente il borsello, legato in vita e luccicante di loghi.
Accusati di favorire furti e frequenti episodi di microcriminalità, non stupisce che le discoteche siano state momentaneamente rimosse dalla prossemica urbana collettiva.
Pulsioni dimenticate
Ma si tratta davvero solo di questo? Per i giovani delle precedenti generazioni, la discoteca rappresentava il richiamo alla trasgressione. Varcarne la soglia significava prestarsi a un universo sotterraneo, alterato e parallelo a quello di tutti i giorni e che viveva di regole proprie: si entrava dopo la mezzanotte, quasi tutti erano ubriachi o poco in sé, l’illuminazione interna deformava la fisionomia dei volti. Giravano droghe, scoppiavano risse.
Era un’epoca che evidentemente provava ancora una certa dose di fascinazione per l’entropia: la possibilità di generare disordine, accettare di assumerlo, accostarsi a varie manifestazioni di degrado fisico e mentale. Non erano i paradisi artificiali di Baudelaire e tantomeno le pratiche allucinatorie della beat generation. Corrispondeva a un desiderio più generalizzato di ebbrezza, stordimento, emozioni a buon mercato.
Quasi mai accadeva qualcosa di veramente imprevisto. La giostra ricorrente prevedeva approcci sessuali garantiti dalle massicce dosi d’alcol ingerite, peripezie più o meno confuse, ritorni a casa con la speranza di non essere sorpresi dalla polizia – né dai propri genitori. Eppure la maglia dei confini, di ciò che è socialmente accettabile, della morale imposta dall’alto si allentava, veniva messa in discussione.
Gli adolescenti odierni raramente sperimentano questo tipo di pulsione. Sembra non siano tentati di uscire da sé in senso classico. Attraversano nuove forme di alienazione: quelle dettate dallo smartphone, tanto per cominciare. Permanentemente connessi, conversano tra loro in ogni momento e in qualunque posto si trovano. Saturano così la necessità di incontrarsi dal vivo e il bisogno di intenti condivisi. Questa almeno è l’apparente realtà dei tempi.
Oppure hanno una madre e un padre più apprensivi, che a loro volta subiscono l’enfasi allarmistica delle notizie in diretta fornite dal telefono e preferiscono ritardare le scorribande notturne dei figli. O ancora, l’esperienza della pandemia ha generato una specie di rifiuto, di fobia della ressa, della calca in pochi metri quadrati di spazio. Probabilmente la cultura dello sballo non fomenta più, è in corso quella che in molti chiamano la mania della sobrietà, della lucidità, della presenza a sé stessi.
Superflua?
Che le discoteche vengano ormai prese sempre meno in considerazione è comunque una tendenza confermata dagli stessi gestori. Lo ribadisce Antonio Gregori, 39 anni, amministratore delegato del Circus di Brescia, oltre che del Molo e del River, altri due club del circondario: oggi, dice, la musica si ascolta in locali esclusivi che si rivolgono a una clientela privilegiata.
A Milano sono sempre più frequenti ristoranti come la Bullona o il Porteno, che offrono spettacoli durante la cena e la possibilità di trattenersi per vere e proprie feste a numero chiuso. Fioccano i circoli privati. Perfino le sagre di paese forniscono complessi live. I rifugi in montagna sono diventati autentici après-ski, provvisti di dj set e del piano bar. Si beve, si balla e non si paga l’ingresso. La discoteca è diventata superflua, faticosa, soprattutto dal momento che prevede spese aggiuntive che nessuno può più permettersi, dal guardaroba alla prevendita.
La crisi economica e la maggiore scarsità di denaro inducono una frammentazione dell’esistenza notturna che rischia di avvantaggiare come al solito i più ricchi, chi si può permettere attività selezionate. Dall’altra parte, vige ormai una domanda di contesti rassicuranti, ridotti, ammantati di un’aura familiare, che si svolgono durante le prime ore della sera, dal crepuscolo fino alla mezzanotte e non dalla mezzanotte in poi, come invece avveniva una volta.
È dunque tramontata l’èra degli scontri con i bodyguard, delle file in mezzo alle transenne, del panino con la salamella raccontato da Il Pagante prima di andare a dormire? Sicuramente quel dispendio di energie, quel contatto con la sporcizia, con il parapiglia e con il corpo di svariate decine di sconosciuti non è più allettante.
Risalire al perché di tale perdita di interesse nei confronti dell’esagerazione e dell’eccesso non è poi tanto arduo: in fondo, anche l’edonismo ha bisogno di essere il contraltare di una realtà che lo rispecchi, che gli sia lieve, che non lo contraddica e non lo sfibri, ma che anzi lo esalti.
Questo principio dialettico è venuto a mancare da un po’. Fiaccati da un presente che non si assesta mai e produce continue sorprese, tutti patiamo dell’incapacità di metterlo a fuoco. E l’imprevedibilità male si coniuga con il temporaneo addormentamento della ragione.
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