Quale messaggio arriva proprio dalle nostre classi sul tema della violenza di genere? Niente di rassicurante perché anche la nostra scuola riflette un contesto tradizionalmente patriarcale e quindi, non solo non contribuisce abbastanza a combattere le disuguaglianze di genere, ma ripropone in aula le stesse dinamiche discriminatorie che le studentesse incontrano fuori
Lo scorso 25 novembre, a pochi giorni di distanza dalla morte di Giulia Cecchettin, la circolare ministeriale che invitava al minuto di silenzio in memoria della ragazza e delle vittime di femminicidio è stata accolta in diverse scuole con una protesta rumorosa e carica di stanchezza. La richiesta di stare in silenzio è sembrata una provocazione per quella moltitudine di ragazzi e ragazze che sempre più spesso alzano la voce per contestare la vuota celebrazione di giornate annuali dedicate a questa o all’altra questione sociale. Questa routine incentrata su una componente di retorica del ricordo mista a partecipazione forzata ad eventi occasionali, infatti, rischia di apparire con gli anni sempre più priva di senso e, ad essere onesti, di svelare in modo palese l’ipocrisia di chi sponsorizza questo tipo di manifestazioni senza dimostrare alcun impegno concreto nella risoluzione di problemi su cui si dice di voler attirare l’attenzione.
I numeri del femminicidio nel nostro Paese da anni superano il centinaio (con un picco doloroso nel 2020, durante la pandemia) e ci consegnano un quadro di agghiacciante normalità: se la vicenda di Giulia Cecchettin data l’età della vittima e del carnefice ha ottenuto una maggiore visibilità e il coinvolgimento di un’opinione pubblica scossa dalla notizia, i nomi delle numerose altre vittime che hanno popolato le pagine dei quotidiani nei mesi successivi hanno perso progressivamente la possibilità di essere visti e ricordati ritornando a rappresentare una goccia nel mare, un fatto di cronaca come un altro.
La data del 25 ritorna quindi e si moltiplicano le iniziative di enti e comuni che in teoria si propongono di dare spazio al problema e alle sue possibili soluzioni: si va dalle installazioni come le panchine rosse alla campagna che invita le donne ad aprire gli occhi sul compagno, fino alle conferenze e alle letture destinate ai più giovani. Ma quale messaggio arriva proprio dalle nostre classi sul tema della violenza di genere?
Niente di rassicurante temo perché anche la nostra scuola riflette un contesto tradizionalmente patriarcale e quindi non solo non contribuisce abbastanza a combattere le disuguaglianze di genere, ma ripropone in aula le stesse dinamiche discriminatorie che le nostre studenti incontrano fuori. Riflettere sulla violenza di genere senza considerare il contesto in cui questa violenza si forma non ha senso: il femminicidio è un omicidio commesso in relazione alle caratteristiche attribuite a una persona che viene considerata gerarchicamente inferiore.
Se tutte le manifestazioni del patriarcato collocano le donne in una posizione di inferiorità nella vita personale e in quella lavorativa non deve stupirci la violenza esercitata in casa o in generale nelle relazioni con le donne: tutto il sistema esercita già una forma di violenza oppressiva che ha come obiettivo il controllo della componente della popolazione che non è allineata con la parte gerarchicamente superiore che è bianca, maschile, eterosessuale, abile e soprattutto detiene il potere politico ed economico.
Il patriarcato tra i banchi di scuola
Se guardiamo il problema dai banchi di scuola, e in particolare dal punto di vista delle nostre studentesse, vedremo che continua per loro una forma di educazione diversa da quella dei coetanei maschi: dal comportamento in pubblico all’abbigliamento, fino allo sviluppo di un’autostima legata al bisogno di rispondere in modo soddisfacente alla pressione estetica, tutto di queste ragazze è stato filtrato attraverso uno sguardo che le ha inserite nel loro contesto come “future donne”. I maschi invece vengono di continuo spinti verso un mondo maschile ancora caratterizzato da scarse manifestazioni di affettività, da indipendenza, prevaricazione e competizione. I pregiudizi sulle predisposizioni verso carriere scientifiche o più remunerative persistono e vedono ancora premiati i ragazzi: del resto anche il corpo insegnante che vede aumentare progressivamente i maschi alle superiori e all’università sembra indicare che carriere più prestigiose siano destinate a loro e che il lavoro di cura (come viene a volte percepita la scuola d’infanzia) sia ambito tipicamente femminile. Quanto ai contenuti, continuiamo a proporre loro un modello di donna letterario filtrato sempre e solo da uno sguardo maschile doppio, quello dell’autore e quello del critico, senza mettere in discussione né lo sguardo che racconta i personaggi femminili, né quello che ha selezionato nel tempo solo voci maschili per comporre un canone letterario considerato intoccabile.
Il patriarcato in cattedra
Se un modo importante di insegnarci chi siamo è la nostra interazione col mondo, non posso fare a meno di chiedermi quale idea di sé venga trasmessa alle mie classi dalla loro interazione con la sottoscritta. Numerose ricerche sul campo attestano che gli insegnanti, indipendentemente dal genere di appartenenza, interagiscono di più con i maschi che con le femmine perché risultano più problematici in relazione al comportamento e alla continuità dell’apprendimento. Nel corso della mia carriera di docente quanto tempo ho impiegato a lavorare alla relazione con un alunno considerato “difficile”? E quanto ne ho sottratto all’alunna silenziosa con altrettante difficoltà ma meno portata (o intenzionata) ad attirare su di sé l’attenzione?
Dalle ricerche emerge anche che se le ragazze intervengono in aula ricevono più interruzioni dai loro compagni e meno rinforzi da parte degli insegnanti, così tendono a recepire il proprio contributo come meno determinante sul clima di classe.
In che modo quindi possiamo combattere una situazione tanto compromessa? L’educazione all’affettività e la rinuncia a una visione binaria e sessista della società mi sembrano irrinunciabili. Possiamo poi eliminare il gender gap nell’educazione garantendo pari accesso all’istruzione, contrastando la segregazione formativa, rimuovendo ostacoli e fattori di insuccesso, combattendo gli stereotipi sessisti che ci ingabbiano. La chiave alla base di tutte queste strategie però è quella di mettere sotto indagine l’intero processo pedagogico, il modo in cui ci rapportiamo agli studenti, la libertà e l’autonomia che riconosciamo loro in quanto persone. Per realizzare questo dobbiamo abbandonare l’idea di una didattica trasmissiva e di una logica sanzionatoria; sostituire alla scuola della competizione un modello solidale e collaborativo, restituendo a questa parola il significato di comunità in cui i membri di questa comunità possono riconoscersi come persone libere e uguali.
© Riproduzione riservata