Riprendendo la riflessione di Mario Giro (uscita il 9 settembre, su queste pagine), proviamo ad allargare ulteriormente il campo e a decodificare quello che abbiamo visto in questi quindici giorni di giochi paralimpici terminati domenica scorsa. Con la ormai consueta parata finale – fuori da ogni binario – messa in piedi da Thomas Jolly, non pago delle ingiuste critiche alla fiammeggiante messa in scena d’apertura delle gare olimpiche parigine a fine luglio. La cerimonia di chiusura si è svolta in tono fintamente dimesso e invece completamente fuori dal protocollo, perché smaccatamente dance. Un bellissimo party, sentito e di cuore, costruito principalmente per far divertire tutti gli atleti e le atlete impegnati nei giorni precedenti in imprese ogni volta faticosissime, seppur affrontate con grazia enorme e potente.

Una vera e propria (e geniale) parata con dentro – tra gli altri - il veterano Jean Michel Jarre, e poi Etienne de Crecy, i Cassius, Kittin, Polo&Pan e questo e quell’altro, per finire con Martin Solveig. Sono state 24 in tutto le superstar del clubbing che hanno infiammato (come si dice) il festone.

Con uno scopo specifico, di civiltà estrema: il passaggio dall’ormai consolidato concetto del/la «diversamente abile» come supereroe o supereroina Marvel – già ampiamente sottolineato dalla promozione delle edizioni precedenti – a una idea di integrazione assodata e totale della diversità, né under né over. Come ha ben precisato nel suo speech finale Andrew Parsons (presidente dell’Organizzazione Paralimpica Internazionale) «è arrivato il tempo per la società di convertire gli apprezzamenti e gli applausi ricevuti in accettazione e azione, di trasformare gli ostacoli in opportunità e la diversità e la differenza in unità con tutto, tutte e tutti». 

Una strada lunga, 70 anni o quasi

Li documenta una mostra parallela alle competizioni, Paralympic History: from Integration in Sport to Social Inclusion (1948-2024). Viene anche ricordata, tra le molte tappe, la decisione dell’apposita corte arbitrale del 2008 che consentì a Oscar Pistorius di correre con il suo Ossur Cheetah Flex-Foot, e scrivere così un nuovo capitolo nella storia della disabilità nello sport (e nella storia dello stesso Pistorius, ma non serve parlarne).

Oltre alla crescita esponenziale sia del coverage che dell’audience tv (altissima anche in Italia), abbiamo visto con gioia una straordinaria campagna 2024 di Channel Four (proprio il broadcaster che segnò nel 2012 l’importante passaggio alla fase “Supereroi”) che ha sottolineato come «la gravità, l’attrito e il tempo siano le forze immutate del nostro mondo e che non facciano eccezione per alcun atleta, indipendentemente dalla disabilità o meno». Da qui, nasce la nuova giusta prospettiva: una visione luminosa di come potrebbe essere la società umana se riuscisse ad assorbire completamente in sé ogni differenza, perlomeno fisica.

Lo show

Lo spettacolo da questo punto di vista è stato chiarissimo. Dalle bandiere nazionali ma soprattutto dalle farfalle e le piume (o anche la riproduzione della Gioconda) viste sulle mascherine di atlete e atleti allo spettacolo mozzafiato del sollevamento pesi, per dire. Dai colori incredibili degli abbinamenti tra tutine e nuovi avanzatissimi flexfoot (i nuovi Cheetah Xpanse per esempio) e le altre protesi di stellare livello tech ed estetico fino allo sviluppo delle nuove gommossime carrozzelle da rugby. Dall’impressionante inserto tra arti mancanti e tecnologia nel ciclismo di alta velocità (segnaliamo per tutti il fantastico Ricardo Ten, giunto a nove medaglie nel suo repertorio) all’Impossibile che si è visto nel nuoto con primati di veri e propri delfini umani oltre ogni dimensione (con atleti come Tao Zheng o Guo Jinchenga dominare la disciplina).

EPA

Vedere gare di tiro con l’arco eseguite con attrezzi talmente sofisticati da consentire di tirare la freccia con il piede a una atleta incinta e che ha portato a casa due medaglie (Jodie Grinham) è stato clamoroso. Il tennis su carrozzella ma soprattutto quello da tavolo hanno offerto performance memorabili, e non facilmente raccontabili. Fino alla parlata romanesca esilarante di Rigivan Ganeshamoorthy, medaglia d’oro per il lancio del disco, e all’assoluta bellezza della figura delle guide che affiancavano le atlete e gli atleti specie nel running.

Per non parlare del momento inter-specie concepito dalla geniale impresa italiana che ha inventato e realizzato la pista color pervinca dello stadio olimpico: si chiama Mondo, nata ad Alba (Cuneo) nel 1948 ed è leader nel settore delle pavimentazioni e attrezzature sportive. Per l’occasione ha sviluppato una nuova mescola per la piste di atletica a base di gusci di molluschi forniti da Nieddittas, una cooperativa di pescatori di Oristano. È tutto pazzesco, oggettivamente.

Il passaggio vero di rappresentazione di sé è avvenuto in modo lampante attraverso l’utilizzo inaspettato, da parte degli stessi organizzatori, del canale tiktok ufficiale delle Paralimpiadi. Toni che dire (auto)ironici non rende l’idea, colonne sonore esalanti per le performance (il peggiore rock’n’roll statunitense anni 80 ha fatto da padrone), commenti completamente fuori dalle righe, titolazioni molto easy. Un tono generale di piena tranquillità e alta intelligenza che fanno capire chi stia imbarazzantemente fuori dal tempo, fuori dall’oggi: noi.

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