Sapevo che prima o poi sarebbe successo, che mi sarei guardata allo specchio e mi sarei infine immedesimata non più nella protagonista teenager di una commedia adolescenziale, ma in sua madre, più precisamente nella mamma di Regina George in Mean Girls, un’indimenticabile Amy Poehler che fa di tutto per sembrare più giovane e al passo con la figlia e le sue amiche. Questo ha un senso anche anagrafico: Amy Poehler, che all’epoca ci sembrava una patetica tardona, aveva 33 anni quando uscì il film. Letteralmente la mia età adesso.

Quando ho sentito parlare di Dress to impress per la prima volta, la disfatta era inevitabile. Intanto perché ci sono arrivata con mesi di ritardo, decretando il mio fallimento in partenza, e infine trovandomi faccia a faccia con la mia inettitudine.

Cos’è Dress to impress: è un videogioco che ha impazzato durante l’estate soprattutto tra le ragazze della Gen Z, ricevendo anche il sigillo di garanzia da Charli XCX, regina indiscussa della brat summer appena finita. È una naturale evoluzione di quello che per noi vecchie ciabatte era Gira la moda: hai una bambolina in mutande e la devi vestire e truccare.

A rendere il gioco competitivo però c’è il tempo. Ogni cinque minuti viene indetta una nuova sfida a tema (Cyberpunk, Anni 90, Primavera, Sirene, ma anche cose che forse sono troppo vecchia per capire, tipo Fun st Food Mascot), e mentre il conto alla rovescia scorre in cima allo schermo la tua bambolina deve andare da una parte all’altra della boutique in cui evidentemente vive con altri replicanti in mutande e prepararsi.

In questo spazio metafisico sceglie gli abiti da indossare, acconciature e colori di capelli, acquisisce lineamenti che vengono stampati sul cilindro grigiastro e omogeneo che ha al posto della testa. Può anche scegliere il colore della pelle infilandosi in una specie di doccia, da cui riemerge in pochi secondi caucasica, nera, ma anche di un bel verde brillante (e sempre con il testone cilindrico).

Mentre si aggira tra gli abiti e gli accessori esposti con aria annoiata e di certo molto meno stressata di quella dipinta sul volto contratto della persona che la comanda, la piccola Bratz indossatrice raccoglie denaro sparso sul pavimento, che le servirà poi a sbloccare l’accesso ad altre sale dove rifornirsi di abiti e ammenicoli vari. Allo scadere del tempo parte una sfilata in cui ogni utente vota da uno a cinque stelle i look di una decina di donnine macrocefale che si esibiscono insieme alla propria. Più si vince più punti si fanno, scalando la classifica fino a classificarsi come “top model”.

Il rapporto con i videogiochi

Dal momento in cui ho appreso dell’esistenza di Dress to impress sapevo non solo che ci avrei voluto giocare, ma anche che non avrei fatto altro per diverse ore. Ancora penso a quell’anno dell’università in cui mi ricordai improvvisamente dell’esistenza di Caesar III, un gioco di strategia che mi aveva assorbito alle medie in cui potevi creare la tua città dell’impero romano, guardandola crescere da un ammasso di baracche di legno al glorioso labirinto di domus e templi di marmo, che attraverso la corretta gestione del denaro pubblico e delle esigenze della popolazione potevi raggiungere (un lavoro non dissimile da quello del sindaco di Roma anche al giorno d’oggi). Non so come feci a laurearmi quell’anno, considerato che non uscii di casa per diverse settimane per completare la mia missione da console.

Non ho un rapporto sano con i videogiochi. Leggenda narra che mia madre, entrata in possesso di un Game Boy, cadde vittima di una gravissima dipendenza da Tetris mentre mi aspettava, e che io abbia nel sangue una pioggia di mattoncini frenetici. Qualunque sia la ragione, io i videogiochi cerco di non frequentarli, per evitare di rimanerci sotto e perdere il rispetto per me stessa.

Un’amara scoperta

Poi ogni tanto mi concedo uno sfizio. «Proviamo questo Dress to impress» mi sono detta, sentendomi legittimata dal fatto che ne avessero scritto su un paio di riviste fighette. Scattando così da demenziale perdita di tempo a prodotto culturale, Dress to impress si è materializzato nel mio telefono in una domenica di settembre in cui avrei dovuto fare molte cose e non ne ho fatta nessuna. La dipendenza è stata però sventata da una inevitabile presa di coscienza: non sono capace di giocare.

Dopo aver partecipato ad almeno dieci sfilate senza scarpe e senza faccia, perché non riuscivo a trovarle, e arrivando sempre malvestita allo scadere del tempo, mettendoci ore a disincastrare il mio avatar da una pianta in cui l’ho infilata per sbaglio, ho capito che con tutta la buona volontà non sarei diventata brava a Dress to impress, neanche con la famosa teoria delle diecimila ore (che in effetti credo di aver sfiorato).

È scritto tutto troppo piccolo, i miei pollici non riescono mai a selezionare l’indumento giusto, e una volta indossato un capo non so più come rimuoverlo. Così finisco per vestirmi a strati, come una prof di chimica in gita scolastica, sono sempre fuori tema, mentre le altre sfilano con outfit pensati e perfetti che io non riuscirei a mettere insieme neanche se la sfida durasse cinque ore, invece che cinque minuti.

Sembrano essersi messe tutte d’accordo che il sottotema debba essere comunque sempre lo stesso, che oscilla da “escort di lusso” a “10 di sera sulla Salaria” (e che stranamente non include i miei quattrocento stracci sovrapposti senza criterio). Arrivo ultima a ogni sfilata, ma ciononostante sento già il battito accelerato, i palmi sudati. Quando la sera chiudo gli occhi vedo borsette e scarpe col tacco e capisco che è l’ora di disinstallare l’app dal mio telefono e di accettare una verità sorprendente: sono più portata per fare la sindaca di Roma che la stylist.

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