L’ansia da parte di alcuni di affermare che un’opera di fantasia appartiene alla nostra parte politica. L’atto di rivendicare un libro riflette il desiderio di monopolizzare un frammento di cultura. In termini economici può essere visto come un tentativo di costruire un capitale culturale esclusivo
Intorno a Ferragosto Simone Pillon, personaggio di destra che esprime pensieri superflui, ma sempre segnaletici, si è lamentato su Twitter del fatto che uno degli attori centrali de Il Signore degli Anelli sia un sostenitore di Kamala Harris (che Pillon chiama “Kamala”, come fosse sua sorella). Scrive Simone Pillon che l’attore in questione probabilmente non ha capito «una beata mazza del libro, oppure sta solo cercando una particina a Hollywood». Dopo questo pensiero conclude, deluso: «Che tristezza».
Il senso di questo pensiero sarebbe il seguente: Simone (Pillon) vuole sottolineare come Il Signore degli Anelli sia un “libro di destra”, e dunque se hai recitato nel film tratto dal libro dovresti sostenere Trump (Donald), non Harris (Kamala). Tralasciando l’idea infantile che Simone ha del lavoro di attore, mi interessa soffermarmi sulla nota fissazione che la destra ha per Il Signore degli Anelli e per una manciata di altri libri (per esempio per La Storia Infinita e ovviamente per il personaggio di Atreju).
Ansia di appropriarsi
Non mi interessa stabilire se il tal romanzo sia di destra, trovo sia un esercizio irrilevante, oltre che bizzarro. Mi interessa soffermarmi su questa ansia di appropriazione. Sul desiderio di dire: quell’opera di fantasia appartiene alla nostra parte politica.
In realtà la parola appropriazione non sarebbe corretta, perché di solito si usa per indicare il caso in cui una cultura si impossessi dei simboli di un’altra cultura. Ma un libro non è un simbolo che una cultura ruba a un’altra cultura, un libro appartiene all’umanità intera, sempre. Nessun libro è mio o tuo, i libri li condividiamo con tutti, come l’aria e l’acqua. Diventa a questo punto ancora più interessante capire come mai la destra voglia reclamare certi libri.
Non si tratta di un fenomeno nuovo, naturalmente, ma di una tendenza che di solito consideriamo strategia ideologica. Però io credo sia anche una manifestazione di dinamiche meno scontate. Per la precisione, di dinamiche che possiamo osservare attraverso una lente economica. Mi spiego.
I libri secondo una certa mentalità possono essere strumenti di potere e di capitale sociale. In base a questa visione la cultura diventa un prodotto con un valore preciso, grazie al quale soddisfiamo bisogni e desideri e segnaliamo appartenenze e scelte. La letteratura cessa di essere qualcosa di universalmente disponibile, di fruibile senza limiti.
Non è più uno spazio condiviso dall’umanità, ma è appunto soggetta alle logiche dell’appropriazione (ecco la distorsione dalla quale nasce l’uso di questa parola). I libri, che dovrebbero essere fonti inesauribili di conoscenza e ispirazione, interpretabili in base a molteplici visioni, diventano “marchi” schematici che possono essere sottratti e rivendicati per rafforzare un’identità.
Capitale esclusivo
L’atto di rivendicare un libro come proprio riflette il desiderio di monopolizzare un frammento di cultura. In termini economici (e intendo l’economia come modello di ragionamento), questo può essere visto come un tentativo di costruire un capitale culturale esclusivo, un bene intangibile che può essere utilizzato per rafforzare la posizione di un gruppo all’interno del mercato ideologico.
Una delle caratteristiche fondamentali del capitalismo è la creazione e l’esacerbazione della scarsità. Si parte dal presupposto che senza scarsità non sia possibile mantenere alto il valore di un bene. Nel mondo dei libri la scarsità non esisterebbe, siccome il “bene” è appunto “per tutti”. Non solo: un libro è per tutti e contemporaneamente il suo valore non necessita della scarsità per non essere nullo. Il valore del libro è anzitutto nel fatto che una mente talentuosa l’abbia creato e messo a disposizione dell’umanità (ovviamente un libro di valore ha un costo economico, ma il costo non è la misura del suo valore).
La scarsità, per chi è fautore dell’appropriazione ideologica del libro, viene dunque escogitata in modo ingannevole, legandola a un concetto di accessibilità ideologica. Quando un gruppo politico cerca di appropriarsi di un’opera letteraria, sta cercando appunto di creare questa scarsità artificiale: sta dicendo «il libro è nostro, appartiene solo a noi e a quelli che condividono la nostra visione del mondo».
Nel lungo termine si riduce la profondità e la vastità del fenomeno culturale (per esempio del libro Il Signore degli Anelli). Solo alcune interpretazioni sono promosse, altre vengono soppresse. Questo annienta la natura sfuggente dell’opera. Equivale, inoltre, a limitare l’accesso all’aria o all’acqua per alcuni, a beneficio di altri.
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