Il terzo film di Boris Lojkine – nato documentarista – ha vinto il Premio della Giuria e quello per il miglior attore nella sezione Un Certain Regard di Cannes 2024. Mentre veniva premiato, il protagonista Abou Sangaré si vedeva negata la regolarizzazione dal governo. Nella metropoli uberizzata del film, l’”altro” siamo noi, ma siamo anche un uomo alla riconquista dell’identità
Potrei partire da Ladri di biciclette. Invece no. Parto da una disciplina sportiva non accreditata ma salutare, nello spirito del mens sana in corpore sano, che a rifletterci bene vale anche all’inverso. È uno sport che puoi praticare nei tempi vuoti della tua vita ordinaria, quando sei in fila al supermercato, quando aspetti la metro, mentre cammini, purché cammini senza ignorare chi ti sta intorno.
Consiste nel metterti nella pelle (nella pelle, non nei panni) degli altri. Tu sei lui/lei e l’altro sei tu. Può sembrare una banale ginnastica francescana a buon mercato, ma ho il sospetto che molti dei seicentotrentasettemilaquattrocentottantasette connazionali che hanno firmato per il referendum sulla cittadinanza sappiano di cosa parlo.
È un esercizio socialmente utile, se non lo pratichi per puro passatempo. Come minimo ti fa passare la voglia di essere villano con il tuo prossimo.
È esattamente la prospettiva che ti impone La storia di Souleymane, in sala con AcademyTwo dal 10 ottobre. Il terzo film di finzione di Boris Lojkine – nato documentarista – nella sezione Un Certain Regard di Cannes 2024 ha vinto sia il Premio della Giuria che quello per il miglior attore. Abou Sangaré, il protagonista, nella vita è un meccanico guineano sans papier che da sei anni vive e lavora in Francia, ad Amiens. Mentre a Cannes lo premiavano, il governo francese gli rifiutava per la terza volta consecutiva la regolarizzazione.
Nella metropoli uberizzata del film l’”altro” siamo noi, sei tu spettatore, ma vivi il confronto dentro la pelle viva di Souleymane. Che questo sia l’obiettivo lo dice anche il regista, ma è quasi superfluo: è l’esperienza diretta che ti passa lo schermo. A velocità mozzafiato. Provo perciò a raccontarla così.
Il formicaio
Ti chiami Souleymane, sei arrivato a Parigi dalla Guinea e fai il rider. Sei una formica nello sterminato formicaio di schiavi che è il business delle consegne dei pasti a domicilio, Uber Eats, Deliveroo e consimili: recapiti a pedali e a tuo rischio. Il tempo è il nemico di tutti i rider, ma tu, come la stragrande maggioranza di chi fa questo lavoro, non hai diritti. Nemmeno il diritto alla tua vera storia, la storia di Souleymane.
Perché mentre pedali furiosamente con un occhio al traffico e l’altro al cellulare, per calcolare i tempi di consegna e quelli del prossimo ritiro, cerchi di imparare a memoria l’altra storia, di militanza politica, prigionia e torture che tra quarantott’ore, davanti ai funzionari dell’OFPRA (l’Ufficio francese di protezione dei rifugiati e degli apolidi) potrà guadagnarti lo status di rifugiato politico.
Miseria e fame non valgono. Non vale una madre epilettica ripudiata come pazza dal marito, emarginata dalla comunità, che senza i tuoi soldi in patria è priva di assistenza. Chissà chi risponde al telefono, quando la chiami. Ma la storia «di convenienza» non è gratis: devi pagare profumatamente il connazionale che ti confeziona date, memorie e dettagli da membro perseguitato dell’opposizione e mercanteggia sui documenti, tessere di partito e altro, che devono supportare il racconto.
Da rider clandestino sei doppiamente sfruttato: subaffitti l’account di un altro guineano che si prende la metà dei tuoi soldi, o meglio incassa il totale e può non ridarti la tua percentuale. L’universo raccontato dal film non è a tesi precotte, non è la retorica facile del come-è-cattivo-il-bianco-privilegiato.
Non c’è gradino della catena alimentare nell’ultraliberalismo occidentale che non generi le sue startup di business e di sfruttamento.
Un docuthriller
Non puoi fermarti se un’auto ti acciacca la bici e la cliente rifiuta la busta del cibo perché è un po’stropicciata. Non puoi fermarti se devi salire nove piani di scale senza ascensore per un anziano trascurato dai figli, che magari sarà il solo a guardarti negli occhi e a chiederti come ti chiami.
Ma la gentilezza non è una terra straniera: un caffè offerto da un venditore di kebab nel freddo notturno può scaldarti il cuore. In mezzo ci sono i connazionali appena immigrati che ti rincorrono perché perfino una bicicletta per loro è un miraggio, e le pattuglie di polizia che magari chiudono un occhio ma un brutto quarto d’ora te lo fanno passare.
Lojkine ama dire che il suo è un thriller al cento per cento e un documentario al cento per cento: thriller per i tempi da cardiopalmo e per il costante senso di pericolo, documentario per il solido lavoro preparatorio sul campo. La sceneggiatura, firmata con la collega documentarista Aline Dalbis, sintetizza le testimonianze raccolte dai "fattorini” urbani del Terzo Millennio.
In Francia arrivano soprattutto dal Mali, dalla Costa D’Avorio e dalla Guinea. «La situazione peggiore in cui puoi trovarti – dice il regista – non è più il furto della tua bicicletta, come accadeva in Ladri di biciclette. Puoi comprartene un’altra a Barbès il giorno dopo. Il peggio che ti può accadere è non superare il colloquio per la richiesta di asilo».
Per filmare la bicicletta di Souleymane ha usato altre biciclette. Una bicicletta per l’immagine e una per il suono, nel caos cittadino, senza mai bloccare il traffico per le riprese. È il tipo di cinema asciutto caro ai fratelli Dardenne, anche se il regista cita piuttosto il Cristian Mungiu di 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni.
La deriva
Ti chiami Souleymane, vieni dalla Guinea e dormi in un centro d’accoglienza all’estrema periferia di Parigi. Dormi, cioè, e hai un pasto, e puoi lavarti, solo se acchiappi al volo l’ultimo autobus della notte che trasporta i tuoi compagni di dormitorio e che hai prenotato con un preavviso di ventiquattr’ore. Se non arrivi alla fermata concordata al minuto giusto, resti per strada.
Se il collega che ti subappalta il suo account si è eclissato tenendosi tutto, e magari ti ha malmenato perché hai provato a raggiungerlo a casa, non hai un soldo. E sei comunque già in debito con il tuo mercante di storie "da asilo politico”, che non gradisce i pagamenti rateali. Per mangiare c’è la zuppa alla mensa dei poveri. Per dormire basta il pianerottolo di un palazzo qualsiasi. E da insonne trovi anche la forza di augurare ogni bene alla tua ragazza, perché a Dakar ha trovato un tizio che vuole sposarla, pare che sia un ingegnere e tu non hai niente da offrirle anche se vi volete bene.
Non sappiamo, dal film, se il tormentato colloquio con la funzionaria dell’OFPRA che impegna la lunga scena finale avrà un esito positivo o negativo. Il regista ha ottenuto un’autorizzazione speciale per assistere agli interrogatori veri, perché di interrogatori si tratta. La storia fittizia che Souleymane ha imparato a memoria è la fotocopia di un cliché usurato: come il più delle volte avviene nella realtà, lo stanano subito. Non assistiamo però a un esame di idoneità all’accoglienza, ma a un duello emotivo.
Dall’altra parte del tavolo non c’è l’Istituzione, l’autorità astratta, ma un essere umano assunto per applicare regole ferree che prova empatia. È "l’altro”. Cioè siamo noi, la Francia, l’Italia o qualsiasi paese della nostra Europa.
Ma siamo anche Souleymane, che finalmente racconta come e perché davvero ha lasciato la Guinea. È uno sfogo, e può perdere tutto. Ma almeno ha riconquistato la sua identità: la storia di Souleymane, quella vera.
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