Le nude pareti rocciose sopra le fattorie, di un blu scuro, qua e là quasi nere, le cime bianche, il cielo chiaro sopra di esse, dove presto sarebbero spuntate le prime stelle, all’inizio impercettibili, simili a vago bagliore indistinto di colore, e poi sempre più evidenti, fino a quando non avrebbero brillato e scintillato nel buio sopra la Terra. Di questo non potevamo appropriarci».

La pagina, nella quale mi imbatto durante le mie letture estive, mi fa pensare a Leopardi; eppure le cime e le nude pareti rocciose sono quelle del Loen nel Nordfjord della Norvegia, il cielo è nordico, l’autore è il narratore contemporaneo Karl Ove Knausgard, di cui non saprei dire se abbia mai letto il poeta recanatese (so, tuttavia, che in Svezia, sua patria di adozione, Leopardi è da tempo studiato e tradotto). Ma è un vizio, per chi ha la mia formazione e forse anche le mie origini, ritrovare il poeta di Recanati nei luoghi più diversi della letteratura, pur tenendo conto che anche la sua poesia è piena di echi e le sue fonti sono diffuse in Europa più della sua opera stessa.

E tuttavia quell’idea di vaghezza legata alla luce piaceva molto a Leopardi e quel brillare e scintillare delle stelle nel buio c’è, simile, nella Ginestra. E soprattutto il poeta ha ribadito più volte nell’intera sua opera, in prosa e in poesia, quel fatto, per l’uomo, di non potersi appropriare della magnificenza del mondo, quel non avere nessuna parte, non essere nulla, non contare nulla in questo grandioso meccanismo dell’universo, concetto sul quale, e con la stessa prospettiva meccanicistica, torna più avanti Knausgard: «Ma le stelle brillano sopra la nostra testa, il sole brucia, l’erba cresce… e quello che noi non riusciamo mai a comprendere veramente, o non vogliamo capire, è che questo avviene fuori di noi, che noi stessi non abbiamo nessuna parte in questo, che siamo soltanto quello che cresce e che muore…».

Rivoluzione copernicana

Leopardi sintetizza l’idea precocemente, a partire dai suoi Ricordi di infanzia e di adolescenza, tra i quali si legge: «Mie considerazioni sulla pluralità dei mondi e il niente di noi su questa terra»; un paradigma che riprenderà più volte ed entro il quale risolve il lungo ed erudito studio dell’universo a cui si era dedicato fin da dall’adolescenza, scrivendo quella che è considerata la sua prima opera organica: La storia dell’astronomia.

Un paradigma che tuttavia (come ha ricordato tra gli altri Emerico Giachery in un suo saggio sul Leopardi cosmico) più avanti si complica, a esempio in un pensiero dello Zibaldone, dove si legge che la grandezza dell’universo svelata da Copernico «abbassa l’idea dell’uomo e la sublima», scoprendosi, l’uomo, allo stesso tempo un nulla e parte di un universo grandioso.

Ma in Leopardi è sempre così: il suo sistema di pensiero è aperto e continuamente in fieri. In una delle Operette morali dedicata a Copernico sono invece i toni a cambiare. Come spesso avviene, quando Leopardi frequenta a lungo un argomento ha bisogno di allontanarlo nei modi leggeri dell’ironia, così, nel camuffamento di una critica radicale all’antropocentrismo, l’uomo in quelle pagine viene a tal punto destituito di ogni rilevanza che la stessa rivoluzione copernicana è presentata come un capriccio del Sole, che al mattino si sveglia e decide di non voler ruotare più attorno alla Terra, e che debba essere piuttosto lei a ruotargli attorno.

Infine, in uno dei più tardi Pensieri il concetto si carica di implicazioni emotive: Leopardi ammette di avvertire di fronte all’universo infinito che il proprio desiderio lo supera in grandezza.

Cambiamento di prospettiva

In ogni caso, universo infinito e nulla dell’uomo costituiscono i poli argomentativi di una strofa centrale della Ginestra, là dove la prospettiva d’un tratto si rovescia e dalla contemplazione del cielo stellato, che scintilla sul Golfo di Napoli, attraverso una progressiva penetrazione nel cosmo, il poeta finisce per assumere il punto di vista delle più lontane galassie, remotissimi nodi di stelle che all’uomo sembrano quasi nebbia e ai quali non solo la terra ma tutto il nostro sistema solare deve apparire invece come un punto di luce nebulosa. Una prospettiva vertiginosa, dalla quale Leopardi torna all’umanità per ribadirne l’insignificanza («al pensier mio/ Che sembri allora, o prole/ dell’uomo?»); una condizione di tale miseria da suscitare compassione e addirittura sarcasmo di fronte all’illusione dell’antropocentrismo, alla pretesa di essere qualcosa, di essere addirittura una figura centrale nell’universo.

La grandezza del cosmo abbatte Leopardi, sosteneva Luigi Blasucci; lo esalta, invece, l’infinito dell’immaginazione, la capacità di sognare spazi interminati e di evocare l’eterno, come avviene nel suo idillio più noto e più grande, L’infinito appunto.

Per forza di stile

E proprio dalla capacità immaginativa muove il processo di riappropriazione del cielo stellato che qui interessa, quello che avviene per forza di stile. Il cielo e i suoi astri hanno fornito in realtà al poeta, fin da quando, adolescente, li ha studiati e analizzati, un bagaglio di immagini e parole: già nel trattato sull’astronomia scritto a quindici anni, oltre alla straordinaria messe di informazioni ben documentate, affiora qua e là un’attenzione particolare per la qualità visiva dei fenomeni celesti, le manifestazioni della luminosità, le ombre della luna, le ragioni dello scintillio delle stelle.

Immagini e parole che più tardi per lui sarà facile far diventare poesia, perché sono figure di lontananza, di vaghezza e indefinitezza, ossia caratteristiche che lasciano spazio al lavorio dell’immaginazione e permettono a chi scrive e a chi legge di accedere a una dimensione diversa, illusoria ed entusiasmante. È così che nasce, a parere di Leopardi, il piacere estetico, grazie alla possibilità offerta dalla poesia di attribuire, o di restituire, respiro, vastità e bellezza alla realtà che vediamo: «Dolce e chiara è la notte e senza vento/ E quieta sopra ai tetti e in mezzo agli orti/ Posa la luna e di lontan rivela/ Serena ogni montagna» (La sera del dì di festa); «Vaghe stelle dell’Orsa io non credea/ Tornare ancora per uso a contemplarvi/ Sul paterno giardino scintillanti» (Le ricordanze); «E quando miro in cielo arder le stelle;/ Dico tra me pensando:/ A che tante facelle?/ Che fa l’aria infinita, e quel profondo/ Infinito seren?» (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia); «… e su la mesta landa/ In purissimo azzurro/ Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle/ Cui di lontano fa specchio/ Il mare, e tutte di scintille in giro/ Per lo voto seren brillare il mondo» (La ginestra).

Riuscire a scrivere questo, restituire attraverso la parola e la sua suggestività semantica e musicale le immagini dell’universo nel loro incanto è tanto per un essere come l’uomo, che avverte la propria marginalità e la totale impotenza ad appropriarsi per altre vie della magnificenza del mondo. Leopardi «è forse il più grande stilista del nostro secolo» ha affermato Nietzsche ed è per forza di stile che uno scrittore si impossessa della realtà, anche e soprattutto la più sfuggente.

Notti di luglio

Un’ultima considerazione. Il cielo stellato di cui scrive Leopardi è, spesso, estivo. Lo è certamente nella Sera del dì di festa, perché il canto rievoca una notte di giugno; lo è, per esplicita dichiarazione, nella Vita solitaria («nella placida quiete/ d’estiva notte»). E anche la Via Lattea si vede meglio in estate. L’invito che viene dal malinconico poeta recanatese è dunque ad alzare lo sguardo, in queste notti di luglio.


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