Per lo scrittore Franchini è diventato un modello dopo la morte, identificato con l’intellettualismo de Le città invisibili. Ma per la massa invece è stato sdoganato nelle classi, senza seguire il percorso degli altri best seller
Dunque Italo Calvino, stando a quanto ci ha raccontato lo scrittore Claudio Piersanti, era percepito dai giovani intellettuali degli anni Settanta come un «uomo di potere», un «inavvicinabile». Ma era poi davvero così? Lo scrittore che forse più di tutti si era rifugiato in una sua dimensione di solitudine, di ricerca, di esplorazione letteraria e critica, pur rimanendo presente, con i suoi interventi sui giornali, alla vita culturale e politica del paese?
Vado a pranzo in un ristorante cinese (o coreano?) dietro via Pirelli con Antonio Franchini, non lontano dagli uffici milanesi della Giunti-Bompiani, di cui è attualmente il direttore editoriale, dopo aver guidato per moltissimi anni la narrativa Mondadori.
Franchini è anche uno scrittore abbastanza singolare, con delle sue ossessioni, tipo le arti marziali. Per me è soprattutto l’autore di un libro molto bello intitolato L’abusivo, in cui racconta la storia di Giancarlo Siani, il giornalista napoletano assassinato a ventisei anni dalla camorra nel settembre del 1985. È un commovente, illuminante racconto su Napoli, la sua città.
Franchini è nato del 1958, la stessa generazione di Claudio Piersanti. È figlio di un commercialista che aveva fatto la guerra in Russia, aveva perso una sorella sotto i bombardamenti e un fratello, pittore, morto col primo Battaglione italiano di Liberazione.
Nella Napoli degli anni Sessanta, il padre di Franchini esercitava la professione e passeggiava per le librerie di via Foria, di via Costantinopoli. Era un bibliofilo. Aveva conti aperti nelle librerie, e ne lasciava aperti per suo figlio.
Nascosta in un libro, a sua volta nascosto sui ricolmi scaffali di casa, Franchini conserva ancora oggi una vecchia lista di volumi da acquistare che il padre, un giorno lontano, gli aveva consegnato tra le mani. È un ricordo doloroso: per Franchini, tra gli oggetti, i segni, le reliquie, soltanto quelli dolorosi valgono la pena di essere conservati.
Questa e altre storie le racconta nel suo ultimo libro, Leggere possedere vendere bruciare (Marsilio), che contiene anche una specie di bilancio professionale, uno sguardo all’indietro lungo i tanti anni passati a fare libri, a leggere, a scegliere cosa pubblicare e cosa no.
Scrittori regionali
Gli racconto della conversazione avuta con Claudio Piersanti (la precedente puntata della nostra inchiesta) e gli riporto il suo giudizio circa il livello di lettura bassissimo che caratterizzava gli anni Settanta, almeno per quanto riguardava la letteratura. Cioè che, in sostanza, quantomeno a Bologna – ma credo che il campione fosse fedele al resto del paese – i giovani intellettuali o sedicenti tali non leggevano romanzi.
Franchini, con quel suo naso da boxeur e gli occhi ingranditi dalle lenti, fa di sì con la testa: «Lo spiegava Gian Carlo Ferretti nel suo saggio sul bestseller all’italiana, quando dice che gli scrittori italiani degli anni Sessanta e Settanta sono regionali, spesso con storie di famiglia, e sono letti all’interno della regione, accomunando Ermanno Rea, Michele Prisco (grandissimo bestseller), Mario Soldati, Giorgio Bassani, e qui ovviamente bisognerebbe fare delle distinzioni – ovvio che è un po’ una generalizzazione – ma ti posso garantire che nessun giovane leggeva la narrativa che andava di moda negli anni Settanta; ed era una narrativa di livello alto. Erano tutti considerati scrittori per signore e borghesi. Il giovane intellettuale non li leggeva.
Comincia, forse, con Andrea De Carlo, dove viene fuori una lingua molto ferma, molto non retorica, in un momento in cui il linguaggio cinematografico è una caratteristica positiva e non negativa come sarebbe stato dopo – se dieci anni fa, vent’anni fa, dicevi a qualcuno che scriveva come una sceneggiatura, sarebbe stata una condanna. E poi c’era Pier Vittorio Tondelli, che raccontava la vita dei giovani di allora, i quali non avevano nessuno che li raccontasse, dal momento che gli altri due successi, prima di loro, erano stati Boccalone di Enrico Palandri, che raccontava la vita del movimento a Bologna, e ancora prima Porci con le ali, di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice.
La categoria dello scrittore giovane una volta non esisteva, comincia a esistere dopo De Carlo e Tondelli, i primi a essere letti dai loro coetanei. Gli scrittori della generazione di Soldati e Bassani non parlavano ai giovani della mia generazione. Pasolini forse di più, ma è la morte, nel 1975, che lo mette improvvisamente in una prospettiva diversa, maledetta e profetica al tempo stesso».
Percorso sui generis
Mentre piombano sul tavolo degli spaghetti credo di riso, con i gamberetti e le verdure che palpitano, gli dico che Boccalone era uscito lo stesso anno di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, il 1979; e anche il romanzo di Calvino fu un best-seller.
«È vero, fu un grande successo», conferma: «Calvino era un autore venduto, importante e famoso già in vita. In generale, però, per le persone della mia età gli scrittori contemporanei non erano un culto. C’era il culto dello scrittore morto: Baudelaire, Rimbaud, i maledetti. C’era un cascame di politica, saggistica politica. Leggevamo filosofia e poesia. Ma il narratore contemporaneo riguardava i lettori adulti, presumibilmente borghesi».
«Però», obietto io, «già negli anni Settanta, uno come Gianni Celati era entrato molto in consonanza con Calvino».
Franchini scuote la testa: «Celati era molto più grande di quelli come me, era del 1937. Il culto di Celati è stato molto più ristretto, ed è passato attraverso una koiné – vale a dire una lingua comune – diciamo così intellettuale emiliana. È indicativo, se ci pensi, perché lui, con libri come Comiche o Le avventure di Guizzardi, avrebbe potuto raggiungere il successo di Boccalone, era anche lui picaresco, ma era troppo in anticipo: quando ha esordito a inizio anni Settanta non erano ancora maturi l’individualismo e il disimpegno che sarebbero arrivati nella seconda metà del decennio, ed è la ragione per cui Celati resta uno scrittore per pochi, benché sia uno scrittore bravo e leggibile. Insomma, ci sono dei grandi libri in quegli anni che nessuno di noi giovani aveva percepito in quanto tali».
«Tipo?».
«Ah, be’, Il male oscuro di Giuseppe Berto. Quando lo lessi da lettore consapevole, dopo, mi dissi: porca puttana che romanzo!».
«Su di lui c’era stata una polemica ideologica…».
«E sì. Berto aveva generato qualche equivoco, aveva fatto la guerra dalla parte sbagliata».
«Che percezione avevi tu di Calvino?».
«Quando Calvino è morto io ero a Milano, il mio primo lavoro editoriale dopo l’insegnamento a Melzo. Lavoravo nella redazione del “Reader’s Digest”. La fama popolare di Calvino è venuta dopo. Ricordo benissimo l’uscita delle Lezioni americane, con le quali accade qualcosa, un cambiamento: Calvino entra nella luce con cui è stato visto dopo. Per i giovani, Calvino era da un lato l’autore di Marcovaldo, che divenne un classico e dall’altro de I nostri antenati, quindi sostanzialmente dei favoloni.
Calvino aveva già avuto quegli enormi successi, oltre a Le fiabe italiane, con cui ha fatto una roba monumentale. Aveva un successo che non passava attraverso il percorso identificato con il best-seller all’italiana. Non era passato attraverso il romanzo medio. Era paradossalmente passato attraverso la letteratura per l’adolescenza. Che poi abbia ristabilito un successo di pubblico con un libro sperimentale come Se una notte d’inverno un viaggiatore, è una cosa che è toccata solamente a lui».
Modello tardivo
Gli chiedo: «Che importanza aveva per voi Calvino, ventenni negli anni Settanta? Oggi lo percepiamo come uno scrittore che ha avuto una grande influenza su tanti aspetti della vita culturale, non solo l’ambito strettamente letterario…».
«Quelli della mia generazione», riflette Franchini, «lo hanno preso a modello intellettuale dopo la sua morte, o addirittura dopo Le lezioni americane (che esce tre anni dopo, nel 1988, ndr) identificandolo con l’intellettualismo de Le città invisibili, di Ti con zero, o l’andazzo che arrivava da Parigi e dell’OuLiPo (“Officina di letteratura potenziale”) di Raymond Queneau, eccetera. Poi Calvino è stato sdoganato alla massa attraverso le insegnanti, diventando pressoché l’unico scrittore del Novecento insieme e in alternativa a Pasolini».
«In che senso “l’unico scrittore”?».
«Significa che negli anni Novanta e anche nel decennio successivo Calvino era diventato una specie di feticcio, che bisognava adorare, che bisogna leggere anche nelle sue cose meno leggibili, come Il castello dei destini incrociati. Questa cosa qui la puoi chiedere a Silvio Perrella, che ha la mia stessa età, ed è stato uno dei primi “calvinologi”…». E così ho fatto: sono andato a chiedere a Perrella cos’era diventato Calvino dopo la morte di Calvino, e cioè come è diventato lo scrittore che oggi conosciamo (o dovremmo conoscere).
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