- Riprodotta in modo seriale, replicata a dimensioni tascabili o rimontata dentro nuovi manufatti, l’arte classica ha un’energia moltiplicatrice che abbatte i rigidi perimetri della storia
- La mostra Recycling Beauty, in corso a Milano alla Fondazione Prada, è una rassegna di quelle opere antiche che sono in qualche modo sopravvissute attraverso il riuso dei materiali
- La mostra mette di fronte al paradosso del reimpiego: danneggia le opere d’arte antica eppure in qualche modo ne assicura la conservazione e dà loro una continuità di vita
Nei corsi e ricorsi della storia può accadere che un sedile latrina diventi un trono usato per l’incoronazione del papa. Proprio questo è stato il percorso d’uso di una seduta in marmo rosso, conservata al Museo Pio Clementino in Vaticano e risalente al periodo dell’imperatore Adriano.
Ha un’apertura al centro dettata da chiare ragioni funzionali, due eleganti braccioli, e una base decorata con palmette e volute. Con il tempo quella funzione però era cambiata: l’apertura permetteva di procedere alla verifica dell’effettiva mascolinità del nuovo pontefice, dopo che la leggenda vuole che, nell’anno 872, una donna fosse riuscita a camuffarsi e a farsi eleggere con il nome di Giovanni VIII. Il sedile latrina permetteva la prova della “palpazione” e precedeva dunque il passaggio a un altro trono ben più degno, la sedia gestatoria. Questo sino al 1566, quando Pio V rifiutò di sottoporsi al rituale, giudicandolo solo frutto di superstizioni, e spedì il trono stercorario nei chiostri del Laterano.
Rediviva saxa
In questo momento quel trono campeggia sul Podio di Fondazione Prada a Milano, tra tanti altri manufatti tutti segnati da simili mirabolanti storie di abbandono e di resurrezione. «Rediviva Saxa» li ha ribattezzati Salvatore Settis, curatore insieme ad Anna Anguissola di questa mostra che completa il ciclo di rivisitazione dell’arte classica secondo prospettive non canoniche: dopo Serial Classic e Portable Classic ecco Recycling Beauty.
Riprodotta in modo seriale, replicata a dimensioni tascabili o rimontata dentro nuovi manufatti, l’arte classica ha un’energia moltiplicatrice che abbatte i rigidi perimetri della storia. E non solo per la sua capacità di contaminare a distanza di secoli o di millenni i processi culturali, ma anche per il suo persistere in forme spesso mutate nel paesaggio che ci circonda.
Assicura Settis nel saggio introduttivo al ricchissimo catalogo, che forse meno del tre per cento dell’arte antica è sopravvissuta ed è arrivata fino a noi. Quell’esigua percentuale assomma ciò che è ancora al suo posto come rovina, ciò che è custodito nei musei e ciò che è stato appunto “riciclato” per dare vita a manufatti ibridi.
Opere puzzle
È proprio di quest’ultimo segmento che si occupa la mostra che si sviluppa in due spazi molto seduttivi della Fondazione, il Podio e la Cisterna. È una mostra realizzata da specialisti, che però si offre al grande pubblico accendendone la curiosità e coinvolgendolo nei meccanismi sorprendenti di queste opere-puzzle che attraversano i secoli.
La fruibilità del percorso è anche frutto dell’allestimento di Rem Koohlaas, che porta il visitatore a lasciar da parte ogni soggezione e lo sollecita a divertirsi nell’inseguire questi carotaggi storici nel corpo delle opere esposte. Lo stesso Koohlaas in certe situazioni ha voluto divertirsi, usando per i piedistalli i materiali d’imballaggio delle opere, quindi allineando il concetto del “riciclo” contenuto nel titolo a un’accezione molto contemporanea, legata alla sostenibilità.
Nel testo introduttivo Settis ricostruisce la vicenda emblematica di un manufatto che per evidenti ragioni non poteva essere portato in mostra: è il pavimento cosmatesco che si distende davanti all’altare maggiore dell’abbazia di Westminster di Londra. “Cosmatesco” è quel termine che racchiude l’esperienza degli attivissimi laboratori, convenzionalmente detti Cosmati, che nella Roma del XIII secolo si erano specializzati nel riciclo dei marmi antichi.
Il pavimento, concluso nel 1268, viene celebrato da una coeva iscrizione in latino, in lettere di bronzo, che mette in chiaro la filiera: prima vengono i committenti, re Enrico III e l’abate Richard of Ware; segue il nome dell’artefice, il marmoraro Odoricius. Infine, l’iscrizione rende onore alla urbs, generosa fornitrice della preziosa materia prima: Roma. Infatti qualche anno prima l’abate era stato in Italia, aveva incontrato ad Anagni papa Alessandro IV ed era tornato in Inghilterra con un grande carico di «porfidi e diaspri e marmi di Thassos» che avrebbe usato anche per ornare la sua tomba.
Se il pavimento londinese è rimasto al suo posto, da Anagni sono arrivate in mostra molte testimonianze di quei cantieri in grado di rimontare in modi estremamente raffinati i marmi, eredità di un passato glorioso e defunto. Per realizzare gli intarsi che fanno da meravigliosi pavimenti in tante chiese di Roma e non solo, dovevano ridurre in frantumi quella preziosa materia prima. In questo modo, scrive Settis, «si obliterava senza rimedio il contesto di origine, ma s’intensificava il senso di ogni tessera, la sua pertinenza a Roma».
Paradossali contaminazioni
È il paradosso del reimpiego: danneggia le opere d’arte antica eppure in qualche modo ne assicura la conservazione e dà loro una continuità di vita, come accade nel caso della bellissima lastra arrivata dai Musei Capitolini, che per secoli aveva decorato l’ambone della basilica di Santa Maria in Aracoeli in Campidoglio. I due autori, Lorenzo di Tebaldo e suo figlio Jacopo, avevano montato un rilievo in marmo, probabilmente di manifattura egiziana, che faceva da bordo a un antico bacile, all’interno di un mosaico cosmatesco. Il rilievo raccontava le vicende del giovane Achille, eroe di una mitologia “pagana”; ma anche eroe “riluttante”. Era bastata l’incisione di una piccola croce in uno degli episodi per renderlo compatibile alla nuova solenne situazione nella quale era stato riciclato: dall’ambone infatti veniva letto il Vangelo durante la messa.
Nel passaggio dalla cultura pagana a quella cristiana non sempre le cose sono andate così lisce. È il caso della sant’Ifigenia martire proveniente da Vicenza, la cui cronologia si segmenta in ben cinque step. Il corpo appartiene a una scultura del I secolo d.C., la testa e la relativa iscrizione che chiarisce il soggetto sono del 1501 ed sono connesse al momento in cui l’insieme era stato collocato nella chiesa vicentina di Santa Corona, nella stessa cappella e negli stessi mesi in cui Giovanni Bellini portava a termine una delle sue pale più celebri, quella del Battesimo di Gesù. Nel 1856 però il corpo “pagano” dell’Ifigenia aveva creato problemi e perciò la statua era stata rimossa da prelati iperbacchettoni. Solo nel 1954 la scultura sarebbe riemersa nelle sale del Museo di Palazzo Chiericati, ma scomposta: testa e corpo divisi, targa con l’iscrizione relegata nei depositi.
Ora nel Podio di Fondazione Prada il puzzle è stato riassemblato, ristabilendo quell’affascinante ponte tra l’Ifigenia eroina sacrificale raccontata da Euripide e la santa etiope, martire, convertita da san Matteo: tutt’e due vittime, tutt’e due vergini. Il riciclo a volte dà luogo a contaminazioni anche contenutistiche.
Colossale Costantino
Il colpo di teatro della mostra è certamente la ricostruzione del Colosso di Costantino, un calco in gesso e polistirene che restituisce un fac-simile della mitica scultura in tutti i suoi 11 metri di altezza. Il modello è affiancato da due dei celebri frammenti, quelli della mano e del piede destri, prestito importante ottenuto dai Musei Capitolini. Come ricostruisce Claudio Parisi Presicce, oggi Sovrintendente romano ai Beni Culturali, la storia del “gigante di marmo” è la storia di un clamoroso riuso in un decisivo passaggio d’epoca. Il Colosso riadoperato da Costantino, e adattato a sé, potrebbe essere niente di meno che la statua di Giove Capitolino, cui era dedicato il più importante tempio di Roma antica, posizionato sul Campidoglio. Tra 217 e 222 dopo Cristo il tempio era stato infatti colpito da un fulmine che aveva distrutto l’altare e gravemente danneggiato la statua, episodio che avrebbe quindi facilitato l’operazione di “riciclo”.
La fissità ieratica del Colosso richiama il profilo di una divinità e il ginocchio scoperto era legato al rituale della supplica. Tuttavia il volto reca segni inconfutabili di rielaborazione per adattarlo alle sembianze dell’imperatore, che nell’anno 312 si era rifiutato di salire al Tempio e di sacrificare a Giove. Iniziava un’altra epoca con un altro Dio… In mostra la vicenda del Colosso è accompagnata da una efficacissima ricostruzione delle sue vicende attraverso una narrazione realizzata con grandi immagini ad affissione murale: peccato solo che nel percorso questa sezione segua la visione della grande scultura e non la preceda, preparando in questo modo il visitatore.
«Ogni reimpiego implica il miracolo di una resurrezione», conclude Settis. In effetti i frammenti di quest’antichità polverizzata erano pietre sempre vive, che conservavano la loro forza di evocazione e la loro intima bellezza e proprio per questo hanno innescato stimoli creativi in chi, a distanza di secoli, ci ha rimesso sopra le mani. Per dirla con una terminologia oggi in voga, il riciclo è stata certamente una strategia win win.
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