Come gli animali che si nascondono nel bosco per fuggire ai predatori anche gli umani si rifugiano nel conformismo per evitare di correre rischi. Un bambino smarrito a scuola che si adegua ai compagni, uno straniero che cerca di confondersi con gli indigeni. Ci nascondiamo perché la nostra diversità è radicale e ineliminabile. A uno è morta la mamma, un’altra è figlio di profughi, un altro ha avuto dei guai con la giustizia, un altro o un’altra è troppo alto o troppo grasso. È lo sforzo di nascondere la differenza che porta al conformismo.

Distruzione capitalista

Percorrendo le vie del centro di qualunque città e non solo in Italia, si ha a volte la sensazione di abitare un’uniformità senza più differenze, quasi in un grande aeroporto: gli stessi negozi, la stessa alienata attesa per un volo che porti da qualche altra parte o per qualcosa da fare in qualche altro luogo. È come se i centri città fossero diventati tutti i non luoghi di cui parla Marc Augé. Vetrine di Prada, Armani, H&M, Zara, gli stessi prodotti ovunque.

Ritorna nelle orecchie il tono disperato di Pasolini quando guardava l’omologazione e avvertiva l’effetto distruttivo del capitalismo sulla società italiana. Nonostante la meravigliosa varietà linguistica che introduce nel film tratto dal Decameron, sentiva la terra sgretolarglisi sotto i piedi, non c’era più cultura contadina, non c’era più proletariato, tutto finiva e finiva male.

Questa disperazione si allargava poi in Pasolini al senso di catastrofe politica, al proprio destino personale. Una stanchezza che in Pasolini è l’altro lato di un vitalismo brutale, quasi che il mondo vibrasse intorno a lui in un costante alternarsi di lucidità nelle analisi sociali, spesso molto conservatrici, dall’aborto ai capelloni alla famosa lettera ai giovani del ’68, e una speranza di salvezza cristiana. Il mondo è un disastro, ma i poveri sono angeli.

Differenze non sradicabili

Ma come per gli animali che si nascondono nel bosco, non ci sarebbe omologazione se non ci fosse una non sradicabile differenza. Vivere in città sempre più simili le une alle altre, sempre più affollate di turisti e freneticamente tese a produrre non si sa bene cosa, è alienante, ma ci adattiamo. L’omologazione pasoliniana, che con la globalizzazione è diventata planetaria, è il fogliame del bosco.

Basta però fare una passeggiata per Napoli e una per Milano o Firenze, e scorgiamo altri gli animali che come noi si nascondono nel fogliame. Nonostante le vetrine tutte uguali, luoghi e persone sono diversissimi. In Italia abbiamo avuto più di un secolo e mezzo di unità politica.

De Sanctis in parlamento avviò subito la riforma della scuola per sconfiggere l’analfabetismo e per spingerci sul modello manzoniano verso una lingua nazionale, eppure dialetti e soprattutto abitudini, modi di essere insieme, resistono con una tenacia che è poi la realtà di come si vive in ogni luogo in modo particolare.

Il senso della laguna per i veneziani, il mare per i genovesi, quello della montagna per le popolazioni alpine o dell’appennino, una grande facondia molto colta e informata in un’antica città universitaria come Bologna, la diffusa presenza del potere del papa a Roma.

A queste prime impressioni se ne aggiungono immediatamente altre che hanno un senso storico, religioso, metafisico che non è facile ridurre allo stereotipo. Vedendo i dipinti di Maradona che a Napoli sono ovunque, da Spaccanapoli ai Quartieri Spagnoli, a fianco alla vendita di corni apotropaici e peperoncini, vengono in mente le pagine di Ernesto De Martino sul Sud e la magia, il ruolo in cui i riti e la religione (e certo insieme ai murales di Maradona il sangue di San Gennaro o l’onnipresente Padre Pio) svolgano una funzione sociale di dialogo tra storia e metafisica.

Contro questo aspetto dell’Italia meridionale scrivevano i viaggiatori protestanti nel Gran Tour, accusando i contadini italiani di essere in fondo pagani e non cristiani, di affidarsi a divinità panteistiche, Dèi della terra, della sessualità, della fortuna.

Gentilezza ed emotività 

Il senso di alienazione che si prova di fronte all’ennesima vetrina uguale anche a Napoli è così contrappuntato da un’irriducibile specificità. C’è qualcosa che evidentemente nelle comunità resiste all’omologazione, a perdere il proprio accento, che si offende o si rallegra per modi di dire e fare che altrove hanno un altro significato.

In particolare per la gentilezza che, come il suo equivalente inglese kindness, ha la propria origine in gens (inglese kin), che significa semplicemente trovarsi a proprio agio in una comunità che ci è familiare.

Una gentilezza che i napoletani mostrano in modo aperto ai visitatori e non solo perché calcolino qualche truffa ai danni del turista, ma anche e soprattutto per mostrare un carattere locale che è aperto al visitatore, desidera includerlo nelle proprie maniere. Sono il fogliame in cui trovare un nascondiglio.

Napoli deve scontare un passato letterario che l’associa all’inganno: dalla vicenda boccaccesca del povero Andreuccio da Perugia al proliferare di narrazioni criminali che ancora oggi popolano tanti programmi televisivi, è difficile non temere che da qualche angolo spunti improvvisamente un malfattore pronto ad approfittare dello spaesamento dello straniero.

E lo straniero lo si riconosce subito, cammina un po’ inebetito dalla bellezza dei luoghi, dal mare e la luce, sospettoso ma anche disarmato di fronte al brulicare di attività che si svolgono per le strade del centro. Costruttori di presepi e panettieri, bancherelle che vendono ogni cosa e gente, tanta gente che attraversa in ogni direzione vicoli e piazzette.

A questo poi si aggiunge il tono emotivo che dalla canzone napoletana a Edoardo De Filippo a Elena Ferrante è diventato un sinonimo di napoletanità. Se ad Alessandro Manzoni interessava, come aveva osservato Italo Calvino, soprattutto la dinamica tra le classi sociali e i suoi personaggi sono spesso emblematici di una visone giacobina dei conflitti collettivi, con il tessitore Renzo Tramaglino, il curato Don Abbondio, il signore Don Rodrigo e via dicendo, nel teatro di Edoardo De Filippo ad essere davvero protagonista è sempre la condizione di una vittima.

Che sia un uomo tradito, una ex prostituta, c’è un registro stilistico che viene da profonde ferite personali e che asserisce la propria umanità in un ritorno, o piuttosto una ricerca, della propria dignità sociale. Come se dal Pulcinella descritto da Agamben, umano elementare, fatto solo di corpo, la maschera napoletana fosse in cerca del proprio ruolo in un mondo che percepisce come maggiore, che lo ha escluso o ridotto a qualcosa di minore.

Naturalmente la superiorità non esiste: non c’è geograficamente e non c’è umanamente. Uno vale uno, sempre. Ma quello che la napoletanità coglie così bene è la tensione a riemergere, a uscire di fronte allo sguardo borghese che riduce l’umano a qualcosa di efficiente.

Come nel famoso monologo della caffettiera di Questi fantasmi dove a commuovere è il desiderio di essere accettato di un uomo tradito, e in fondo questo desiderio di essere accolti è il filo conduttore di tanta canzone napoletana e nel fortunato ciclo di romanzi di Elena Ferrante. Un revanscismo storico che, quando va bene, riesce a trascinare il senso della propria particolarità, a farci risalire dal pregiudizio all’accettazione.

Anche se questo atteggiamento rischia, quando non riesce ad essere vicino alla sua vena più intima e umana, di cadere nel patetismo e di ricacciare Pulcinella nel buffone o una bella sconosciuta nella scaltra cugina messinese che inganna Andreuccio e lo fa precipitare nella merda.

Non può esistere un mondo così appiattito come le vetrine tutte uguali dei centri città. In realtà il capitalismo è superficiale: passa sulle nostre caratteristiche sociali, geografiche, personali e comunitarie con una furia omologante, ma basta restare un attimo più a lungo, ascoltare, leggere e guardare meglio e tutto quello che è vario, tragico e meraviglioso, ritorna visibile anche allo sguardo di un turista non distratto.

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