È complesso il destino di un artista cui capiti di nascere in Armenia. Inevitabilmente si trova a dover fare i conti con drammatici fatti storici, che sono ferite ineludibili. Rafael Megall è uno dei più importanti pittori armeni viventi, essendo nato a Yerevan nel 1983. È cresciuto e si è formato nell’Accademia della capitale, e pur non avendo neppure 40 anni, nella sua biografia deve annoverare l’esperienza di un’adolescenza trascorsa in parte sotto il regime comunista (l’indipendenza da Mosca è arrivata nel 1991) e quella di una guerra con il confinante Azerbaijan, che nonostante una tregua firmata nel 1994 vive di ripetuti sanguinosi ritorni di fiamma, spesso con un prezzo alto per la popolazione civile.

Il motivo del contendere è il controllo di una regione, il Nagorno Karabakh, enclave armena in territorio azero. A questa storia presente si deve aggiungere quella passata, una tragedia che viene vissuta come ferita difficile da rimarginare: è il genocidio commesso dai turchi tra 1915 e 1917 che Ankara continua a negare spiegandolo surrettiziamente come semplice conflitto tra le parti in causa.

I fantasmi della storia nell’arte di Megall hanno preso la forma di feroci felini che hanno popolato le sue opere tra 2016 e 2019. Emblematico è un suo dipinto del 2017, un d’après da un quadro del 1913 di Vardges Surenyants, popolare artista armeno. Nella tela è rappresentato il poeta e scrittore persiano Abul-Qâsem Ferdowsi mentre legge il suo poema più celebre, Shahnameh (Il libro dei re), al sultano Mahmud di Ghazna.

Davanti al sultano è accucciato un magnifico e regale leopardo, attento e partecipe a quel rito, diventato tutt’uno con l’ambiente sfarzoso in cui si trova. Nella replica, Megall varia il maculato dell’animale, accendendolo di un rosso violento e soprattutto ne cambia la posa, che si fa eccitata e aggressiva. La storia è evidentemente esplosa, e quel mirabile equilibrio che si registrava nell’opera archetipa di Surenyants appare come un sogno, distante e ormai in frantumi.

Decori armeni

È un panorama in frantumi anche quello che fa da filo conduttore nel ciclo di dipinti Porcelain Idols, scaturito dall’osservazione delle piccole statue in porcellana, di fabbricazione sovietica, così diffuse nelle case. Sono tele di grandi dimensioni, composizioni fantasmagoriche, dove quei frammenti di un vissuto imposto esplodono dentro composizioni dai colori quasi acidi, in cui la natura riprende spavaldamente il suo spazio.

In questo come in altri cicli la superficie è a tratti attraversata da una fitta rete di decori armeni. La storia di questo ciclo di dipinti nasce dall’invito di un collezionista che nel 2019 gli aveva chiesto di realizzare delle sculture in ceramica. Davanti a questa sollecitazione Megall ha scelto un’altra strada: ha raccolto statuette di porcellana prevalentemente di epoca sovietica. Le ha fotografate e scontornate con l’intenzione di frammentarle per ottenere un bozzetto digitale tridimensionale che facesse sintesi di diversi esemplari.

Nel corso di questo processo ha capito di dover dare un’accelerazione a quell’idea: la frammentazione è diventata una vera e propria frantumazione, e i pezzi di porcellana sono stati dipinti come se un’esplosione li avesse proiettati nello spazio della tela. L’effetto visivo è di composizione in continuo movimento, come accade per le immagini virtuali che popolano gli schermi dei nostri dispositivi telematici.

L’esplosione

L’energia centrifuga delle immagini e la loro concitazione richiama ancora una volta la dimensione storica, segnata dall’esperienza della diaspora e dello spettro delle guerre. La dimensione narrativa tende a rendere esplicito il contenuto metaforico: inoltre l’uso del colore a olio rende ancora più icastiche le rappresentazioni, con queste schegge che ci vengono restituite anche nell’aspetto lucente proprio della porcellana.

Che il tema dell’esplosione sia al centro dell’immaginario di Megall lo confermano due grandi opere, incluse nel ciclo Porcelain Idols, datate 2020 e ispirate ad uno dei più celebri film di Michelangelo Antonioni, Zabriskie Point. La sequenza sulla quale Megall concentra la sua attenzione è il fantasmagorico finale con la deflagrazione che distrugge la villa nel deserto della California. La scena girata in slow motion, mostra i frammenti della casa e di ciò che conteneva levitare nello spazio, proprio come avviene nelle tele dell’artista armeno.

Il primo quadro, intitolato Zabriskie Point (the Dream) è dedicato appunto all’esplosione, frutto in realtà di un sogno di Daria, la protagonista, angosciata dalla notizia dell’uccisione del compagno. Il secondo, Zabriskie Point (the End) invece si riferisce alla sequenza finale, che vede Daria allontanarsi in macchina, sullo sfondo di un cielo infuocato dal tramonto. Il filo conduttore che lega film e dipinto è la dimensione della perdita e dell’esperienza di un mondo che si sgretola.

Ma chi sono gli idoli a cui fa riferimento il titolo che Megall ha dato a questo ciclo che lo ha occupato negli ultimi due anni? È ad esempio lo Young prophet, idolo ieratico, giovane Buddha in meditazione, con tanto di aureola. Si tratta di quattro tele dipinte in modo seriale nel 2019, e ispirate alla celebre icona del Pantocratore dipinta da Andrej Rublëv: quelle di Megall sono icone di un pop contaminato da un immaginario asiatico.

I tanti ritratti di Tolstoj

Ma c’è anche un Heretical Idol al quale Megall assegna le sembianze di Lev Tolstoj. Così, provvidenzialmente, in una stagione in cui capita di assistere a demenziali demonizzazioni della cultura russa, ci viene proposta la grandezza di un autore la cui biografia è profondamente segnata dal legame con i popoli del Caucaso.

Heretical Idol è il titolo di uno dei tanti ritratti a Tolstoj che Megall ha dipinto in parallelo con il ciclo Porcelain Idols. Il titolo fa riferimento alla scomunica che era stata comminata allo scrittore, per altro profondamente religioso, dalla Chiesa ortodossa, per via delle sue posizioni critiche verso le gerarchie e verso i dogmi.

In un altro ritratto, il volto di Tolstoj si staglia severo, con piglio quasi biblico, su uno sfondo rosso acceso, decorato con la trama dei motivi che vengono suggeriti dalla tradizione iconografica armena. La scelta cromatica richiama l’episodio rievocato in Chadži-Murat, un bellissimo romanzo breve dello scrittore, ambientato proprio nel Caucaso.

Nelle prime pagine del libro, che è una denuncia del dispotismo, sia zarista che asiatico, incarnato da un imam. Tolstoj, allora giovane ufficiale russo, racconta che tornando a casa per i campi in una giornata d’estate aveva notato «in un fosso, una strana lappola color rosso vivo in piena fioritura».

Attratto dall’intensità del colore, aveva deciso di coglierla, ma l’operazione si rivelò più complicata del previsto. Scrive infatti Tolstoj: «Era così spaventosamente tenace che combattei con lei per cinque minuti, lacerandone una a una le fibre». La lappola rossa diventa così metafora della ostinata resistenza di un popolo che in Chadži-Murat, il protagonista del libro, riconosceva il paladino della propria indipendenza. Il finale del romanzo è tragico e quindi richiama quella dimensione di fondo che ritroviamo come una costante nelle opere di Megall, anche quando visivamente sembrano proiettarci verso prospettive più psichedeliche.

Tra le icone entrate nel repertorio dell’artista, recentemente sono apparsi anche dei personaggi del mondo Disney. Mickey Mouse sorride gioviale, ma aprendo la bocca mostra i denti affilati di una tigre. Anche la sfera dei fumetti è stata travolta dalla realtà e ha smesso di essere un’oasi felice per la serenità dei più piccoli.

Chaos in the Language of Cartoons s’intitola non a caso una delle opere recenti dove Megall crea una imprevista e traumatizzante commistione tra i personaggi del fumetto e la rappresentazione simbolica dell’Armenia esposta alle minacce di una pantera. È un’immagine segnata fin dal titolo da un’ironia tagliente. Come accade per Summer Meeting in the Eden Valley, opera di grandi dimensioni del 2021, dove due figure bizzarre e minacciose, con profilo da coccodrilli, occupano la scena con passo militaresco. I colori sono quelli pieni dell’estate, l’aria è apparentemente frizzante. In realtà la storia con la sua ferocia ha occupato anche il paradiso.

Sul vicino Ararat, montagna simbolo per gli armeni, ora in territorio turco, era approdata, salvandosi, l’Arca di Noé. Oggi l’Arca dove troverebbe ancora un approdo?

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