C’è stato un tempo in cui Nick Cave detestava le interviste. «Dopo un po’ vieni solo consumato dalla tua stessa storia», ha raccontato al giornalista irlandese Seán O’Hagan durante le lunghe sessioni di conversazioni private raccolte nel libro Fede, speranza e carneficina. Questa volta il cantautore e compositore australiano si è prodigato in lunghe interviste in giro per il mondo per raccontare il processo creativo che ha dato origine a Wild God, l’ultimo album di Nick Cave & The Bad Seeds, pubblicato a fine agosto da PIAS Recordings.

Per circa un mese Nick Cave è stato dappertutto, nei programmi televisivi e sulle copertine delle riviste internazionali, occupava le prime pagine di Les Inrockuptibles e ICON, veniva intervistato dalla scrittrice argentina Mariana Enriquez e dal presentatore americano Stephen Colbert; dappertutto Cave ripeteva il concetto di una ritrovata gioia interiore, una gioia dalla natura selvaggia e spirituale, che avremmo potuto riconoscere nel nuovo album Wild God.

Per circa un mese allora abbiamo ascoltato il disco. I nuovi album di Nick Cave hanno bisogno di sedimentarsi: forse la loro dimensione più naturale è ascoltarli dal vivo, perché è là che i pezzi entrano nelle vene. Wild God è un disco dei Bad Seeds, di semi al vento e raccolte di tempeste. La voce tenebrosa di un cantautore tra i più grandi. Di quelli che resteranno a futura memoria. Gli eterni.

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Se Ghosteen era stato il disco del dolore allo stato puro, del pugno sulla faccia, il canto luttuoso per la scomparsa improvvisa del figlio Arthur, morto per una caduta da una scogliera nel 2015, Wild God è il tentativo di Nick Cave di ascendere a una forma nuova e interiore di gioia. Naturalmente Cave resta un regnante dell’oscurità, e la sua gioia non è esattamente una macarena. La Joy di Wild God è quella degli spiriti irrequieti. Musica per cercatori di incanti e tenebre, parole per bardi di confine tra la vita e il deliquio. Wild God è un viaggio tra gli indimenticati interregni scuri e infetti dei Bad Seeds.

Dall’uscita di From Her To Eternity, il primo album di Nick Cave coi Bad Seeds, sono passati quarant’anni. Intanto di cose ne sono successe. Alcuni semi cattivi hanno preso strade diverse, nell’ultimo decennio Mick Harvey ha registrato solamente dischi da solista, Anita Lane è morta qualche anno fa, e la mano di Warren Ellis è diventata sempre più preponderante per il suono dei Bad Seeds.

Nick Cave racconta di avere trovato in Ellis un’energia nuova, di essersi sentito ritrascinare indietro allo stato primitivo dei Bad Seeds, in una zona franca dove è possibile non ripetersi ma sperimentare una nuova stagione creativa. Delle critiche dei fan di vecchia data a Cave importa poco o nulla. La sua ambizione è riunire l’intero pubblico di giovinezze diverse sotto il palco.

Nick Cave e Warren Ellis si ritrovano spesso a suonare insieme e improvvisare alla ricerca di canzoni e suoni. Negli anni si è creata tra loro una forte sintonia artistica. La voce cavernosa e selvaggia di Nick Cave svetta in volo intarsiata dai suoni magici di violini, tastiere, cori, sintetizzatori, e qualsiasi altra cosa venga fuori dalla mente originale di Ellis. Soprattutto così sono nati gli ultimi album, il tormentato poema di Ghosteen, l’opera scarnificata di Carnage, le altalene di cori da brividi, i chiaroscuri sofisticati, le esplosioni rock, demoni e angeli che si incontrano nell’ultima devastante danza di Wild God, un disco da eterno ritorno e ripetizioni, con improvvise accelerazioni di chitarra, angoli fatati, devastanti inquietudini e tensioni rivolte all’invisibile.

Nella musica di Nick Cave c’è sempre stata una forte dimensione spirituale, sin da quando era un giovane saltimbanco dalla svagatezza drogata che calpestava i palchi di club e locali come l’indemoniato crooner di un perduto reame underground dal sapore di liquirizia e menta.

«Tutte le mie canzoni sono state scritte da una posizione di desiderio spirituale», ha confidato Nick Cave a O’Hagan. Cos’altro sono le Murder Ballads se non racconti trascendentali del terrore, di chi è il cielo da spingere via in Push The Sky Away, a quale invisibile Lord si rivolge Cave quando invoca le braccia della ragazza in Into My Arms.

In Wild God la ricerca spirituale diventa quasi invocazione religiosa. Canzoni come Conversion sono esperienze mistiche rinvigorite dalla forza sonora dei lamenti arpeggiati di Warren Ellis. Nick Cave canta rivolto a forze misteriose: evoca l’inferno e il paradiso in Song of the Lake, e spezza il cuore con la ballata Long Dark Night ispirata a una poesia del santo spagnolo Giovanni della Croce.

Il dio selvaggio che sta cercando Cave è un desiderio sregolato di trovare pace dentro il caos, l’invocazione a un oltre mondo dove sia possibile rincontrare il figlio Arthur, e l’altro figlio Jethro, rivedere Anita Lane, la madre, e tutti gli amici perduti nel corso degli anni, Mark E. Smith o Shane McGowan, il cantante dei Pogues morto lo scorso anno. Al funerale di McGowan, Nick Cave ha suonato al piano A Rainy Night in Soho, l’omaggio di un re annichilito che attraverso la musica si riconnette a ciò che è andato perduto.

Dal vivo

La dimensione spirituale, a tratti sacerdotale della musica di Nick Cave, diventa catartica e fisica durante i concerti dal vivo (il 20 a Milano): sul palco la musica si libera in una sfrenata baraonda di forza, creatività, carica. Da qualche anno Nick Cave sente più forte l’esigenza di connettersi con le persone, sul blog The Red Hand Files risponde alle domande dei fan, ai concerti cerca più contatto col pubblico.

Dal vivo le canzoni nascono a nuova vita: è la musica il centro, sguardo e orecchie rivolti al palco verso gli assassini di silenzio. Nick Cave salta, canta, si getta sulla folla, tocca il suo pubblico, urla come uno sciamano innamorato che vive in modo sbrigliato l’esperienza di trascendenza dell’arte. L’eterno ragazzo invocatore di divinità va oltre il limite, e il pubblico trova la via più bella e diretta per arrivare alla musica.

Uno dei poteri più eccitanti della musica è quello di farci sconfinare oltre i limiti del corpo e la realtà. Più il viaggio del cantautore o musicista è audace, sfrontato e illimitato, più chi ascolta riesce a partire per rotte ignote. In un documentario la cantautrice Judy Collins, parlando del vecchio amico Leonard Cohen, esprimeva profonda gratitudine verso un poeta e cantautore che attraverso il suo viaggio di ricerca spirituale è riuscito a regalare esperienze profonde anche ai suoi ascoltatori.

La musica di Leonard Cohen può essere trasformativa, perché lui stesso era un cercatore di esperienze. Un genere di sensazione che si può ritrovare nella musica di un cercatore selvaggio come Nick Cave o nella disturbante meraviglia dei Bad Seeds: avvertiamo un senso di gratitudine per lo sconfinamento interiore che è capace di agitare un disco, una ballata al pianoforte, una corda di chitarra, un’oscillazione rock, un ululato bianco.

A sessantasette anni Nick Cave continua a fare i conti con sé stesso, va avanti per la sua strada, lotta con i mulini che incrocia, e di tanto in tanto si lascia andare a un ricordo, come quando per un momento fa risorgere la voce di Anita Lane con una vecchia registrazione che risuona in O Wow O Wow (How Wonderful She Is), e tutto improvvisamente torna indietro nel tempo, al giovane ragazzo dai capelli scuri che si aggirava per le strade di Berlino, ma è solo un momento perché Wild God è un album proiettato in avanti, e queste dieci nuove canzoni vengono da una zona di mistero – un punto rotto dove sussurrano voci e ascendono al cielo suoni come scrosci azzurri.

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