Con Per un pugno di dollari, arrivato in sala 60 anni fa, la diarchia regista-compositore ha scritto la storia di un genere e di tutto il cinema. I due sono stati l’uno il contrappunto dell’altro, linee melodiche che si combinano e ricombinano con ritmi nuovi
Sessanta anni fa Sergio Leone ed Ennio Morricone si rincontrarono e cambiarono la storia del cinema. Omero incontrava Rossini e infatti la loro produzione è western-gangster-lirica. Si erano conosciuti a scuola, alle elementari, poi si erano persi, infine si ritrovarono per diventare i nostri Paul McCartney e John Lennon. Tutto cominciò con Per un pugno di dollari (1964). Il loro cerchio perfetto. Leone vede La sfida del samurai (1961) di Akira Kurosawa preso da Piombo e sangue (1927) di Dashiell Hammett e decide di riportarlo a casa.
Per riscrivere l’America sceglie il western, genere che agonizzava, e lo rifà con Morricone, il suo co-sceneggiatore principale.
Cominciando dalla frontiera – con i desperados, contrabbandieri e messicani che vivono in una terra di nessuno – e addentrandosi nel paese e nella sua storia fino a tornare in Messico che è il capitolo finale del 3+2, la trilogia del dollaro (Per un pugno di dollari, 1964; Per qualche dollaro in più, 1965; Il buono, il brutto, il cattivo, 1966), l’arrivo del treno e del mondo nuovo (C’era una volta il West, 1968) e il ritorno a casa per morire (Giù la testa, 1971).
Un nuovo genere
Leone scegliendo un genere basato sull’individualismo fonda una coppia-inscindibile che tra immagini, suoni, rumori e silenzi incastrati come e più di John Cage, cambia tutto quello che incontra: spettatori e registi, non a caso Stanley Kubrick e Sam Peckinpah ne allargheranno la lezione, e Kubrick cercherà anche di avere Morricone ma Leone lo impedirà, evitando la deriva che poi travolgerà la coppia di Eyes Wide Shut.
E per dare vita al nuovo genere americano diventano americani, personaggi a loro volta, cinema più cinema: Leone si firma come Bob Robertson e Morricone come Dan Savio. Formando una delle diarchie più influenti e indimenticabili della storia del cinema, cambiano un genere americano, riscrivono la storia statunitense e arrivano ad avere dai western più di quello che aveva avuto un attore di genere, Ronald Reagan, che sparando nel west arrivò “solo” alla Casa Bianca.
Sublimazione della nostalgia
Oggi hanno eserciti di allievi, adepti, ammiratori, studiosi e altri ne verranno. Persino Bob Kennedy era tra questi. Perché avevano trovato la formula che cercano tutti quelli che in qualche modo stanno insieme: si completavano. È bello pensare che dove finivano le parole e le immagini di Leone cominciasse l’alfabeto di note di Morricone. È bello pensare che le note di Morricone fanno parte delle immagini di Leone e che dove altri avrebbero dovuto mettere parole, parole, parole, loro ci mettano un nodo: quello creato tra una faccia e un suono, tra un paesaggio e una melodia, tra un duello e una composizione musicale.
Leone&Morricone sono la sublimazione della nostalgia, perché costruivano un mondo favolistico – che mai abiteremo e che sempre desidereremo di abitare – iperreale, generando una mancanza o colmando un desiderio, in pratica creano uno dei momenti più alti dell’esistenza del cinema. Non fanno cinema, generano un mondo che ci manca e che vediamo al cinema.
Leone&Morricone creano un altro mondo: reale per quanto favolistico, accettabile per quanto iperviolento, ma con una trama a orologeria e tanta dinamite che provoca una esplosione di note. Leone capisce che Morricone non è solo il suo co-sceneggiatore ma è l’altro sé, insieme si integrano: in uno sparo, una armonica, un coro e via così. Persino l’ironia leonesca dei dialoghi o delle situazioni diventa ironia morriconiana nella musica. Il fischio è di per sé irridente, prima che epico.
E serve a completare le scene, a preannunciarle o a finirle con un urlo del coyote che sostituendosi alla voce di Eli Wallach dice al Biondo di chi è figlio – ne Il buono, il brutto, il cattivo, interpretato da Clint Eastwood. Leone usa Morricone come evoluzione della musica che agiva nel cinema muto di cui era figlio, suo padre – Roberto Roberti – era stato uno dei registi pionieri e sua madre – Bice Waleran – una attrice importante. Il padre di Morricone – Mario – era stato un «trombista».
I due ripetendo il lavoro dei genitori, sono costretti dalla coniugazione del tempo a scavalcarli per farli felici, a integrarli per portarli con sé. Si editano e compensano: Leone stacca e riattacca musiche di Ennio, riciclando quelle composte per altri e rifiutate perché di Morricone non si butta niente – il tema di Deborah in C’era una volta in America era scritto per un film di Zeffirelli – ed Ennio con grandi musiche costringe Leone a tagliare dialoghi che non servono più, per dire il tema del carillon è Proust – tanto amato da Sergio, il «sono andato a letto presto» è figlio di Marcel – al cinema senza i sette volumi de la Recherche.
Come l’inizio di C’era una volta il West tutto silenzi, suoni e soffio del vento era quello che restava della musica di Morricone che aveva subito l’editing di Leone, meglio di quello che Gordon Lish faceva a Raymond Carver, tanto che Ennio ha commentato: «È la più bella musica che io abbia mai composto». Perché Leone era il primo ascoltatore di Morricone ed era anche quello che c’aveva messo le scene che Morricone doveva immaginare a orecchio mentre Leone gliele recitava. Da questo racconto reciproco nasceva il loro cinema.
Senza Morricone non ci sarebbero gli azzardi di Leone e senza Leone non ci sarebbero le fughe musicali di Morricone. Sono l’uno il contrappunto dell’altro. Leone&Morricone sono linee melodiche che si combinano e ricombinano con ritmi diversi, accelerazioni e cambi, esplosioni e silenzi, una unione divertita e divertente di artigianato, immaginazione e invenzioni. Il loro tempo è un tempo diverso. La vita che creano anche. Ora sono dei classici che bordeggiano il sacro. Un vertice. Di cinema e musica. Sono diventati un genere a parte e non sono più la reinvenzione di un genere che esisteva. Leone&Morricone sono un modo di fare cinema.
Come un boom
Poi Morricone ha continuato dopo la morte di Leone (1989), ha scritto musiche uniche per film bellissimi, in alcuni casi capolavori, ma non ha più ritrovato l’altro sé nel regista. La loro combinazione è stata come il boom economico italiano, non a caso nascono a ridosso di quella esplosione fino ad arrivare agli anni Ottanta, rappresentano la possibilità di sperimentare e avventurarsi. Per un pugno di dollari è un titolo che racconta anche la storia del film prodotto con pochi soldi, con la scoperta di un giovane attore americano, Clint Eastwood, e la scommessa su un grande attore italiano, Gian Maria Volontè, considerato troppo teatrale.
La storia è un Arlecchino servitore di due padroni, quindi Goldoni, niente di più italiano innestato nel West. Poi c’è una grande scrittura nei dialoghi – con Duccio Tessari e Fernando Di Leo – dove si mischia Shakespeare alla commedia italiana. E nel finale non si accontentano di fornire due delle battute più citate nella storia del cinema: «Al cuore Ramon, se vuoi uccidere un uomo devi colpirlo al cuore» e «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto», ma riscrivono anche il senso del duello che finiva con chi sparava per primo: qua il duello va ai supplementari, si può raccogliere l’arma, ricaricare e risparare.
Leone&Morricone dilatano il tempo del duello, e poi lo soppalcheranno con il duello con arbitro e infine nel triello, sintesi kantiana – apoteosi dei primi piani tagliati leoneschi e della musica che ci gira intorno morriconiana. Riscrivono l’America mettendola in dubbio. La mescolano all’Italia e ne fanno il paese delle favole che tutti vorremmo abitare.
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