Il cinema maturo del regista di culto coniuga miracolosamente profondità culturale e incassi al botteghino. Anche chi non ama o non ha capito i suoi film ha ottime ragioni per essere grato al regista di Oppenheimer
Si può stimare moltissimo Christopher Nolan senza per forza essere un nolaniano? Si può sostenere la sua idea di cinema insieme così fuori e dentro questo tempo – un tempo in cui al cinema ci si va pochissimo (ma non quest’estate) e in cui dunque pare ancora più lunare questo suo modus operandi così orgogliosamente novecentesco – e spesso, però, trovare i suoi lavori detestabili?
Si può pensare che certi suoi film siano grandissimi (dopotutto lo sono, che diamine) e tuttavia riconoscere che quegli stessi film non ti hanno mai davvero emozionato, non ti hanno smosso niente, e però li rivedresti ancora, perché qualcosa ti ha tirato dentro e quel modo lì di farlo non ce l’ha nessuno? Sono le domande che mi faccio ogni volta che vedo un film di Nolan, pure l’ultimo, l’attesissimo (soprattutto da noi, ultima provincia dell’impero) Oppenheimer.
Negli Stati Uniti, lo avete letto anche su queste pagine, è passato il ciclone ribattezzato Barbienheimer: ovvero Barbie + Oppenheimer, usciti lo stesso giorno (21 luglio) e compagni solidali alla presa del botteghino. Nel momento in cui scrivo, Barbie è arrivato a 570 milioni di dollari in patria (1 miliardo e 300 milioni in tutto il mondo, di cui 29 in Italia), Oppenheimer a 285 (oltre 700 su scala globale). Da noi, appunto, il filmone di Nolan arriva solo il 23 agosto, con la scusa che due colossi insieme il nostro pubblico che in questa stagione pensa perlopiù alle partite di racchettoni sul bagnasciuga non li avrebbe retti, e allora prima uno e poi l’altro; anche questa, in altri termini, una forma di solidarietà, un gentlemen’s agreement.
(Uso quest’espressione pur sapendo che oggi offenderebbe molti, e sapendo anche che Barbie è un film con una protagonista donna e diretto/prodotto da donne. Ma insomma, possiamo mantenere qualche espressione parimenti novecentesca, quando spiega benissimo certe questioni? Peraltro, Gentlemen’s Agreement è il titolo originale di un altro bellissimo filmone bellico che vinse l’Oscar, Barriera invisibile di Elia Kazan. Chiusa parentesi. Anzi, no: su questa cosa dei gentlemen ci tornerò a breve, sempre a proposito di Oppenheimer).
Roba per adepti
Tornando al principio: si può amare Nolan detestando Nolan? Sto esagerando, ma neanche troppo. Il cinema di Nolan è diventato, negli anni, un cinema per adepti a cui non si può toccare nulla, nemmeno i passi chiaramente falsi del loro autore favorito (su tutti: il rompicapo divertente ma tendente alla supercazzola che è Tenet). Ma anche questo denota la peculiarità dell’autore inglese, quella sua capacità d’essere diventato non tanto un regista-star (ce ne sono tanti), ma un cineasta a cui prestare devozione totale. In tanti l’hanno paragonato a Stanley Kubrick e, fatte le debite proporzioni, il paragone non è improprio, tutt’altro.
Kubrick è, ironia della sorte, la presenza/assenza dietro il Barbienheimer di quest’estate. Se il film di Greta Gerwig si apre con una sequenza che è un omaggio a 2001: Odissea nello spazio (solo con la prima Barbie prodotta dalla Mattel al posto del monolito e le bambine con le vecchie bambole a foggia di neonato al posto delle scimmie), Oppenheimer è una risposta più o meno indiretta a Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba, e metto anche il sottotitolo per intero perché questo è uno dei punti caldi sollevati dal film in questione.
In molti accusano Oppenheimer – biopic di J. Robert Oppenheimer molto fedele alla biografia scritta da Kai Bird e Martin J. Sherwin, American Prometheus (da noi più banalmente titolata Oppenheimer – Trionfo e caduta dell’inventore della bomba atomica) – di aver regalato troppa coolness all’uomo che, di fatto, ha provocato la morte di oltre200mila giapponesi. Coolness derivata da un film che è übercool di suo, venduto come l’evento che è, pieno di star (Cillian Murphy di Peaky Blinders ha il ruolo del titolo, accanto a lui ci sono Matt Damon, Robert Downey Jr., Emily Blunt, Florence Pugh, Josh Hartnett, Casey Affleck, Rami Malek, Kenneth Branagh, Matthew Modine e Gary Oldman), e soprattutto diretto dal più venerato dei registi contemporanei.
L’altra questione di dibattito è il fatto che Oppenheimer sia, dicevo poco fa, un film di e per soli gentlemen, che relega le donne in un angolo (o alla parte di “moglie di”: la prima interpretata da Florence Pugh, la seconda cui dà il volto Emily Blunt) oppure usate, dicono alcuni detrattori, soltanto per infilare nel cinema di Nolan le prime vere scene di sesso (tra Murphy e Pugh) della sua filmografia. Polemica che si può scansare facilmente: quello della fisica del tempo era un club per soli maschi; si vedono volonterose studentesse sedute tra i banchi dell’università, mentre Oppenheimer ascolta rapito le lezioni di Bohr (Branagh), ma il gruppo che avvierà il controverso Progetto Manhattan sarebbe oggi facilmente hashtaggato con l’immancabile #tuttimaschi, anche se viene accreditata la presenza di una donna (Isabella Karle).
Il test
Quanto alla prima polemica – la coolness della bomba H – la scena più bella, che non spoilero nei dettagli, è il test della bomba stessa, sospeso tra successo e rovina, suprematismo americano e distruzione globale. Di fronte al suo Prometeo, Nolan non sceglie, ne è chiaramente sedotto (come noi tutti) ma mantiene la necessaria distanza. In questo senso, Oppenheimer è un rompicapo al pari dei celebrati film precedenti: un’opera – documentatissima, parlatissima, stratificatissima – che lascia aperte mille piste, che fa volare alto il suo Icaro e poi lo abbandona al suo destino (nel momento in cui il protagonista diventa di fatto Lewis Strauss, cioè Downey Jr., da sostenitore del progetto nucleare a strenuo oppositore dell’atomica e di Oppenheimer).
Che è poi quello che Nolan ha sempre fatto: lasciare libero il campo da ogni coinvolgimento personale, con la conseguenza per alcuni (eccomi) di raffreddare l’emozione. Il titolo precedente che più si avvicina a quest’ultimo è ovviamente Dunkirk, e non solo per lo sfondo che è la Seconda guerra mondiale, ma anche perché il rompicapo (lì giocato tutto sul tempo, qui sulla fisica anche intesa come attrazione e repulsione tra le persone, e nella politica, e nella Storia) tiene insieme l’orrore della guerra e la sua inevitabile epica, l’errore (e l’orrore) e la grandezza delle imprese umane, anche quelle scellerate. Il cinema di Nolan, del resto, è sempre impresa, ma lo sforzo è sempre più cerebrale che muscolare, è una sfida intellettuale (e Oppenheimer lo dimostra forse più di tutti gli altri) anche se la tecnica è ogni volta l’altro cuore peculiare del cinema di Christopher Nolan.
L’uso della pellicola, la (quasi) assenza di effetti speciali, la sala cinematografica come unica destinazione possibile (e il precedente Tenet, difatti, scontò la ripresa ancora tiepida post-Covid incassando “solo” 365 milioni di dollari al box office internazionale): la tecnica di Nolan è l’altro elemento che, dicevo, lo tiene fuori e al tempo stesso totalmente dentro il cinema di oggi; un cinema che – lo dimostrano l’interesse di massa sul pur “difficile” Oppenheimer, e la discussione generale e generalista, e le mastodontiche cifre registrate al botteghino – ha sempre più bisogno di esistere, per far esistere il cinema stesso.
Film maturo
Il cinema di Nolan è sempre pensato come blockbuster, anche quello degli inizi. È stato ridistribuito nelle nostre sale quest’estate il debutto, Following; poi, lo sapete, ci sono stati Memento, instant cult, e Insomnia, oggi finalmente capito un po’ di più (anche da me).
Il cinema di Nolan è passato, sapete anche questo, dalle saghe cinecomic (la trilogia del Cavaliere oscuro), dalla fantascienza (Interstellar), da quella che sarebbe diventata autocitazione ante litteram (Inception), dal divertissement che in realtà era tutt’altro che un’illusione (The Prestige, una delle sue vette al tempo, e ancora adesso, meno capite); ed è arrivato, con Oppenheimer, al blockbuster che viene pensato, scritto, prodotto e girato come un classico. Per molti è il suo film più maturo; certamente, anche se per certi versi resta volutamente irrisolto, sembra quello attraverso cui Nolan vuole dialogare in linea forse definitiva con la natura stessa del suo cinema.
Oppenheimer avrà un sacco di candidature ai prossimi Oscar, probabilmente ne vincerà qualcuno, dopotutto è il film che già rende contenti critici e pubblico, testimoniando, se ce ne fosse bisogno (e ce n’è), che un cinema complesso, adulto, non conciliante può ancora fare parte della cosiddetta conversazione. Anche solo per questo tutti devono essere grati a Christopher Nolan. Pure i non nolaniani come me.
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