Nella Pasqua, celebrazione della risurrezione di Cristo e festa più importante dell’anno liturgico, confluiscono diverse componenti diverse tra loro. Il racconto evangelico si colloca nei giorni (e nella tradizione) della festa ebraica. Ma è fin da principio nucleo della nascente religione cristiana
Nella festa cristiana di Pasqua, la più importante dell’anno liturgico, sono confluite componenti molto diverse tra loro. Al centro sta la risurrezione di Gesù il terzo giorno dopo la sua crocifissione, che i racconti evangelici collocano nei giorni della festa ebraica: «Cristo è risorto» (in greco Christòs anèsti) è il diffusissimo augurio pasquale dei fedeli orientali, declinato in diverse lingue. E la risposta – che riecheggia una frase del vangelo secondo Luca (24,34) – è di rimando: «Davvero è risorto» (alethòs anèsti).
La pesah
Ma il contesto religioso è innanzi tutto ebraico. La festa di Pasqua (pesah, «passaggio») commemora la liberazione d’Israele dalla schiavitù dell’Egitto, episodio fondante narrato nel libro dell’Esodo, che contiene anche le prescrizioni – rituali e alimentari – per ricordarlo ogni anno: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore, di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne» (12,14).
La festa ebraica – detta degli «azzimi», i pani non lievitati che con l’agnello e le erbe amare la contraddistinguono – è la prima delle tre per le quali la Bibbia (Deuteronomio 16,16) prescrive un pellegrinaggio, più tardi fissato a Gerusalemme e al quale allude il vangelo di Luca (2,41) riferendo che i genitori di Gesù vi si recavano ogni anno, appunto per la Pasqua. La seconda festa è quella delle «settimane» (shavuot), in greco Pentecoste perché cade cinquanta giorni (sette settimane) dopo la Pasqua, e la terza viene detta delle «capanne» (sukkot).
In origine feste agricole, le tre ricorrenze hanno assunto un significato radicato nella storia biblica. Come infatti la Pasqua rievoca la liberazione dall’Egitto, la festa delle Settimane ricorda la consegna della «legge» (torah) e quella delle Capanne il lungo peregrinare del popolo d’Israele nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto. A ciascuna delle feste è associato un libro biblico: il Cantico dei cantici a Pasqua, a Shavuot il piccolo libro di Rut e a Sukkot quello del Qoelet.
La lettura a Pasqua del poemetto erotico attribuito dalla tradizione a re Salomone – ma la datazione del bellissimo testo è più tarda – vuole celebrare simbolicamente il legame d’amore tra Dio e il suo popolo, che ricorre anche nella letteratura profetica. Alcuni cenni alla primavera rimandano all’antica dimensione agricola della festa («ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se ne è andata», 2,11) che cade nel mese di nisan (tra marzo e aprile), tradizionalmente ritenuto quello della creazione del mondo.
La rinascita
Molti secoli più tardi, nell’Inghilterra altomedievale il monaco Beda fa derivare il nome della festa cristiana, Easter, dalla divinità anglosassone della primavera, Eostre. E si riferisce naturalmente alla rinascita della natura l’uso di scambiarsi il dono delle uova, simbolo primordiale diffuso nelle culture più diverse.
Da questo derivano nella Germania luterana il gioco infantile della caccia alle uova colorate e la figura del coniglio che le porta in dono ai bambini, descritto già nel 1682 nel De ovis paschalibus, antenati dunque cristiani di simboli oggi trasformati dal contesto commerciale.
Tra i cristiani che vivevano nell’Asia minore, il nome greco della festività ebraica, pàscha, venne, con un’etimologia erronea, fatto derivare dal verbo «soffrire» (pàschein). L’allusione era alla passione e alla morte di Cristo – che i vangeli collocano appunto a Pasqua (alla vigilia della festa secondo la cronologia del vangelo giovanneo, storicamente la più attendibile) – ma era un’altra spiegazione a coglierne il significato legato alla liberazione dalla servitù egiziana, e dunque da ogni schiavitù, già nel giudaismo ellenistico.
Il termine greco traduce infatti pesah, «passaggio», come spiega il libro dell’Esodo (12,27), e ogni anno viene ripetuto nella lunga e suggestiva cena (seder) pasquale, che è uno dei momenti fondanti della religiosità ebraica e alla quale accenna l’egittologo Jan Assmann all’inizio del suo Esodo (Adelphi): «Quando i vostri figli vi chiederanno “che significato ha per voi questo rito?”, voi direte loro “è il sacrificio della Pasqua per il Signore, il quale è passato oltre le case degli israeliti in Egitto, quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case”».
Fede antica
All’inizio del V secolo Agostino sintetizza i molteplici significati della festa cristiana: il Signore con la sua passione «è passato dalla morte alla vita e ha aperto a noi credenti la via verso la sua risurrezione, perché anche noi passiamo dalla morte alla vita».
E in una predica spiega ai fedeli che la veglia pasquale – cuore della celebrazione primitiva della festa – è «la madre di tutte le sante veglie», quando in forma solenne veniva celebrato anche il battesimo dei catecumeni adulti, usanza ripresa in età contemporanea.
Centrale negli scritti del Nuovo Testamento, la risurrezione di Cristo è affermata molto presto – già negli anni Cinquanta del I secolo – e per primo da un testimone molto particolare: Saulo, cioè Paolo di Tarso, «il tredicesimo apostolo» che non aveva mai incontrato in vita il maestro di Nazaret e che anzi aveva iniziato la sua carriera perseguitandone i seguaci. La svolta avviene sulla via di Damasco, narrata da Luca, autore di due libri neotestamentari: il vangelo che porta il suo nome e gli Atti degli apostoli.
In questo secondo libro Luca, discepolo di Paolo, narra la conversione del suo eroe – forse già un paio d’anni dopo la crocifissione di Gesù – per ben tre volte (nei capitoli 9, 22 e 26), con poche varianti. La prima volta in terza persona, mentre nelle altre due parla lo stesso apostolo che, accusato davanti ad Agrippa II, ultimo della dinastia erodiana, racconta: andando a Damasco «verso mezzogiorno vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio. Tutti cademmo a terra e io udii una voce che mi diceva in lingua ebraica: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? È duro per te rivoltarti contro il pungolo”. E io dissi: “Chi sei, o Signore?”. E il Signore rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti”».
Costituito «testimone» da questo misterioso episodio, Paolo spiega di non aver mai predicato «se non quello che i profeti e Mosè dichiararono che doveva accadere, che cioè il Cristo avrebbe dovuto soffrire e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe annunciato la luce al popolo e alle genti», destinata dunque a ebrei e pagani. La sintesi di Luca è già nelle lettere autentiche di Paolo, soprattutto la prima alla comunità di Corinto, dove «si trovano tutti gli aspetti della vita umana: liti e processi, sesso e affari, ricchi e poveri, culto e lavoro, saggezza e stoltezza, politica e religione».
Così scrive il biblista anglicano Nicholas «Tom» Wright nelle quasi novecento pagine di uno studio ampio e convincente (Risurrezione, Claudiana) che ricostruisce il nucleo della fede cristiana, dalle credenze diversissime diffuse nel mondo pagano a quelle ebraiche, per giungere a stabilirne l’originalità e la realtà.
Questa fede nella risurrezione è sostenuta senza esitazione appunto da Paolo intorno all’anno 54 nella prima lettera ai cristiani di Corinto – dove alcuni dubitano della risurrezione dei morti – perché «se Cristo non è risorto vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede» (15,14).
Il film di Pasolini
Pier Paolo Pasolini fu affascinato da Paolo in modo tormentato, e tra il 1966 e il 1974, l’anno prima della morte, lavorò a un film, mai realizzato, sulla vicenda dell’apostolo. Come nel memorabile Vangelo secondo Matteo – che è del 1964 e si conclude con la scena della risurrezione accompagnata dai gioiosi tamburi congolesi della contemporanea Missa luba – la sceneggiatura, pubblicata postuma, non modificava le parole del Nuovo Testamento ma ambientava la storia di Paolo nel mondo contemporaneo, dalla vigilia della seconda guerra mondiale agli anni sessanta.
E proprio nel 1964 il regista confidava a don Giovanni Rossi – il carismatico fondatore della Pro civitate Christiana di Assisi, dove aveva avuto la prima idea del film sul vangelo di Matteo – una drammatica identificazione con l’apostolo abbagliato sulla via di Damasco, «forse perché io sono da sempre caduto da cavallo» ma «un mio piede è rimasto imbrigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio».
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