La domanda deve essere stata molto simile a quella che 10mila o 20mila anni fa generò l’agricoltura: perché andare per boschi e campi a cercare le (poche) piante che danno frutti commestibili quando possiamo coltivarle appena fuori casa?

Probabilmente gli esseri umani di quel tempo la domanda se la fecero anche per il pesce, consumato fin dal Paleolitico, ma certo era più facile coltivare melanzane che branzini. Dovettero quindi passare ancora diverse migliaia di anni perché la pescicoltura (o acquicoltura, o acquacoltura) diventasse una tecnica affidabile per produrre cibo.

Da oriente a occidente

L’archeologa Heather Builth ha recentemente scoperto una serie di vasche e canali artificiali che servivano ai nativi australiani Gunditjmara per allevare le anguille. Sono strutture molto ingegnose che risalgono a circa 8.000 anni fa. Qualche altro storico fa risalire le origini dell’acquicoltura a circa il 2.500 a.C, per opera degli Egizi, basandosi su un bassorilievo ritrovato nella tomba di Aktihetep, dove in effetti si vede un uomo pescare da uno stagno pieno di pesci, ma chi ci assicura che siano allevati?

Il primo accenno certo alla pescicoltura risale alla Cina del 1500-1100 a.C.: Fang, un costruttore di stagni dove poi si allevavano le carpe, ci informa che queste strutture venivano poste spesso vicino agli allevamenti dei bachi da seta, di cui i pesci mangiavano le feci. Fang scrisse delle liste di consigli su come allevare le varie specie, quali fossero i tempi giusti per la pesca, le tecniche migliori, etc. Nel 500 a.C. sempre in Cina, Fan Li scrisse invece il primo trattato ufficiale sull’allevamento dei pesci.

Ma a quel punto l’acquicoltura è attestata anche da questa parte di mondo. Gli Assiri e i Sumeri costruivano stagni, o li isolavano da bacini più ampi grazie a piccole dighe, e li riempivano di pesci. Facevano poi pagare un’entrata al pubblico che poteva a quel punto pescarli. Platone parlò di qualcosa di simile in Egitto, e i greci portarono a livello di sistema l’allevamento delle anguille sul fiume Struma in Tracia e nel lago Copais in Beozia.

In Italia i romani allevavano ostriche e altri molluschi e poi orate e murene e furono tra i primi a chiedersi quale tipo di ambiente fosse il migliore per la pescicoltura. Prima utilizzavano vasche artificiali, derivate da quelle delle ville in cui si tenevano i pesci come elemento architettonico. Ma poi preferirono riprodurre le condizioni naturali dei pesci, allestendo dei bacini in aree confinanti con le spiagge, o in lagune, allevando pesci a Ponza, all’Isola del Giglio, sulla costa laziale e toscana e nell’Adriatico alle pendici del Monte Conero.

I romani cominciarono a separare le varie fasi della vita dei pesci. Prendevano da porti e calette esemplari neonati, da 0.5 a 5 grammi, e li portavano nei bacini che avevano approntato per crescerli e poi pescarli, come descritto dallo scrittore latino Columella. Con i greci e i romani, la tecnologia della pescicolture migliorò notevolmente: grazie alle loro invenzioni si poteva regolare il livello dell’acqua, fare fronte a inondazioni e finanche svuotare completamente il sito, pulirlo dai detriti e poi riempirlo di acqua pulita.

Tecniche medievali

Nel medioevo, gli esperimenti dei romani furono ulteriormente sviluppati soprattutto nei conventi e nei monasteri, visto che i religiosi spesso non avevano possibilità o diritto di pesca nei laghi e fiumi vicini. C’era però la necessità di mangiare pesce almeno il venerdì, secondo la regola religiosa, e quindi l’acquicoltura consentì di obbedire ai dettami della fede. Ma la vera novità medievale fu la nuova concezione del fondo del bacino: grazie a un sapiente uso dell’argilla e di altri materiali, il letto diventò liscio e meno permeabile, più facile da pulire e meno dispendioso da gestire.

A metà del Settecento l’allevatore di pesci tedesco Stephen Ludwig Jacobi riuscì a realizzare la prima fecondazione artificiale di uova di trota, ma eseguì il procedimento nell’acqua, cosa che riduceva drasticamente le percentuali di riuscita. Si dovette aspettare un secolo, e il procedimento a secco, perché la troticoltura si diffondesse dapprima in Francia e poi in Europa e ovunque nel mondo.

Il mercato italiano

Arrivando a oggi, anche se i dati non sempre convergono, con una certa approssimazione si può dire che nel mondo i pesci più allevati sono le carpe e i loro simili, seguite in ordine da gamberi e scampi, ostriche, tilapie (pesce americano e asiatico), frutti di mare, salmoni e trote, crostacei, cozze e capesante. In grande ascesa, in tutto il mondo, le alghe, che in questa classifica non sono comprese non essendo pesci ma che hanno già raggiunto i numeri di gamberi e ostriche. In Italia il primato spetta invece alle trote, seguite da spigole, orate, cozze e vongole.

Il mercato nel nostro paese è di tutto rispetto. Pier Antonio Salvador, presidente dell’Associazione Piscicoltori Italiani, ha recentemente detto che in Italia esistono 800 siti per l’allevamento di pesci e molluschi in mare o in acqua dolce; che le specie allevate sono 25 (ma per qualcuno siamo a 50), per una produzione annua di 180 mila tonnellate di pesce, in un settore che dà lavoro a 15mila persone con un fatturato di 500 milioni di euro.

I rischi ambientali

Oggi allevare il pesce è molto più di una sfida tecnologica o di una scorciatoia per la filiera alimentare. La Fao sostiene che ultimamente ogni essere umano ha incrementato il consumo di pesce in misura rilevante, superando i 20 kg totali annui. Ovviamente si tratta di una media, in realtà i dati dei paesi più ricchi sono rimasti pressoché uguali mentre in molte nazioni in crescita il dato ha fatto un enorme balzo in avanti. È evidente che la pesca tradizionale, con i suoi problemi connessi alla sostenibilità, non può accontentare questa richiesta. L’allevamento appare allora una necessità.

È altrettanto vero che questi numeri hanno dal canto loro portato ad alcuni problemi. L’allevamento intensivo (che spesso nutre i pesci con mangimi artificiali) ha soppiantato quello estensivo (in cui l’animale aveva una dieta naturale). Il numero enorme di pesci allevati rende questi allevamenti ad altissimo rischio contagio.

Da qui l’utilizzo di antibiotici e antiparassitari, e di materiali tossici usati per le inferriate e per le altre strutture, tutti elementi che finiscono per inquinare l’ambiente circostante e soprattutto per entrare nell’organismo del pesce e quindi anche dell’essere umano che lo mangia. Ci sono poi i problemi ambientali, che però per il biologo marino Alessandro Nicoletti riguardano soprattutto pesci e crostacei, mentre allevare molluschi e alghe apporta addirittura benefici all’ambiente.

Al di là dei pericoli appena accennati, c’è il problema della qualità: non bisogna essere degli esperti per capire se il pesce che ci hanno servito al ristorante sia allevato o pescato in mare aperto. Le carni di quello allevato sono meno sode e il gusto è meno intenso. Ma rassegnarsi a un pesce di serie B sarebbe davvero un peccato.

Secondo gli esperti, quello che si dovrebbe fare somiglia molto a quello che si raccomanda per l’agricoltura: preferire gli impianti in mare dove feci e altre impurità si disperdono in uno spazio molto ampio e non restano accanto ai pesci allevati; non superare la produzione prefissata per evitare l’uso di farmaci; evitare di allevare pesci in zone in cui non sono nativi, perché se fuggono diventano specie invasive e dannose per l’ambiente circostante; controllare lo stato di salute dei pesci e adottare un certificato sanitario per scongiurare i rischi peggiori; e infine evitare mangimi prodotti con pesce selvatico come sardine e sgombri, che vengono così sterminati (si sta provando con farine di insetti, ma siamo davvero all’inizio).

In testa a tutto, comunque, bisognerebbe tener presente che produrre cibo necessita di una coscienza etica profondissima, superiore a quella richiesta per produrre altri tipi di beni. Chi non la possiede, forse, dovrebbe occuparsi di altro.

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