Qualunque cosa dicano le leggi la storia ha dimostrato che le donne continueranno ad abortire. Nel 2022 la Corte Suprema statunitense ha ribaltato la Roe v. Wade eliminando il diritto all’aborto a livello federale e lasciando a ogni singolo stato la libertà di adottare la propria legislazione.

E dal 2022 le organizzazioni che si occupano di salute riproduttiva negli Stati Uniti hanno parlato di un notevole aumento della percentuale di donne che affermano di aver interrotto una gravidanza attraverso l’autogestione, senza cioè assistenza medica e ricorrendo soprattutto ai farmaci abortivi.

Le leggi che regolano l’accesso a questi farmaci stanno però cambiando continuamente e Donald Trump, che inizierà a breve il suo secondo mandato, da presidente avrà il potere di nominare i principali funzionari della Food And Drug Administration, cioè l’ente regolatore dei farmaci, che potrebbe agire direttamente su questa forma di aborto, vietando i medicinali che lo permettono.

Ma di certo non potrà vietare i saperi e le pratiche che le donne si sono tramandate di generazione in generazione per gestire il loro aborto attraverso una vasta e varia infrastruttura clandestina di sostegno che nel tempo non è mai scomparsa.

Il Del-Em

Pratiche che continuano a comprendere anche l’uso del Del-Em. Fu inventato all’inizio degli anni Settanta da Lorraine Rothman, insegnante che faceva parte delle West Coast Sisters di Los Angeles.

Rovistando nei negozi che vendevano acquari, nelle ferramenta e nei laboratori di chimica, Rothman creò infatti un nuovo dispositivo portatile per il controllo della vita riproduttiva delle donne: poteva essere usato per abortire in un momento in cui l’aborto era prevalentemente illegale, ma non solo.

E poiché un medico l’aveva definito una «piccola macchina sporca», le femministe adottarono provocatoriamente quell’espressione e battezzarono la loro creatura Dirty Little Machine, da cui Dlm, e poi il definitivo Del-Em. Fino a quel momento, per le donne che volevano abortire ma non potevano farlo per legge, i movimenti femministi avevano messo in piedi un’infrastruttura di sostegno facendo rete con alcune cliniche o medici compiacenti.


«Call Jane»

Negli Stati Uniti, dall’inizio degli anni Sessanta, il cosiddetto Army of Three coordinò per esempio una underground railroad di informazioni per fornire un’alternativa ai ferri da calza e alle grucce. L’esercito era formato da tre donne: Pat Maginnis (descritta in un articolo del New York Times del 1966 con «gli occhi di una fanatica» e, in modo spregiativo, come una «zitella»), Lana Phelan e Rowena Gurner.

Avevano tutte abortito illegalmente e il loro volantino conteneva un elenco continuamente aggiornato di fornitori di aborti fuori dagli Stati Uniti, soprattutto in Messico, ma anche in Giappone e in Svezia. C’erano i nomi, indirizzi, numeri di telefono, onorari, descrizioni della procedura per ciascun medico, suggerimenti su come viaggiare ed evitare la polizia di frontiera, acquistando per esempio dei souvenir al confine in modo da sembrare normali turiste.


A Chicago, un altro collettivo seguì il loro esempio. «Pregnant? Don’t want to be? Call Jane», si cominciò a leggere sui giornali studenteschi. Jane era lo pseudonimo di tutte le donne che facevano parte dell’Abortion Counseling Service of Women’s Liberation, conosciuto come Collettivo Jane, che dal 1969 cominciò a fornire un servizio di consulenza e accompagnamento a un aborto sicuro ed economicamente accessibile alle donne che lo contattavano.

Ma reti per gli aborti collettivi esistevano anche in moltissime altre parti del mondo: da Parigi, all’inizio degli anni Settanta, due volte alla settimana partivano pullman di quarantacinque donne alla volta dirette a Londra (dove l’aborto veniva praticato legalmente dal 1967 in cliniche private, ma a prezzi piuttosto accessibili). Dall’Italia i gruppi si organizzarono per viaggiare anche in aereo o in treno ottenendo, poiché erano numerosi, delle riduzioni sul prezzo del biglietto. 


«Aborto in pausa pranzo»

I movimenti femministi dell’area di Los Angeles indirizzavano le donne che volevano abortire alla clinica gestita dallo psicologo Harvey Karman, che praticava illegalmente gli aborti con un dispositivo che diceva di aver progettato lui stesso: una cannuccia sottile, morbida e flessibile (oggi nota come cannula di Karman) per aspirare il contenuto dell’utero in una grande siringa.

Il metodo dell’aspirazione era in realtà già diffuso da anni in Cina, Unione sovietica, Giappone e Bulgaria. L’aspirazione richiedeva pochi minuti, era meno invasiva rispetto al metodo della dilatazione e del raschiamento, e le donne chiamavano l’interruzione di gravidanza praticata in quel modo «aborto in pausa pranzo»: perché potevano tornare subito alle loro attività senza che nessuno si accorgesse di quel che era accaduto.

Osservando Karman, Lorraine Rothman sviluppò la sua versione del dispositivo per utilizzarlo nel contesto politico del self-help e per sottrarlo alla logica della catena di montaggio. Aggiunse sia una valvola per controllare la direzione del flusso d’aria, in modo che non si rischiasse di invertire l’aspirazione pompando aria nell’utero, sia un tubo di raccolta collegato a un barattolo, per aumentare la capacità di contenimento ed evitare che la siringa potesse riempirsi prima della fine dell’operazione causando complicazioni.

Il Del-Em era di facile assemblaggio. Servivano due tubi di gomma lunghi circa 30 centimetri (quelli per acquari andavano benissimo), una cannula di 4 millimetri, un barattolo con un coperchio di plastica e una siringa. I due tubi andavano infilati nel tappo di plastica del barattolo, uno andava collegato alla cannula, l’altro alla siringa senza ago. La cannula veniva inserita nella vagina e nella cervice. Tirando lo stantuffo della siringa, il contenuto dell’utero passava dal tubo al barattolo. Rothman e le altre parlarono del dispositivo spiegando che serviva per l’estrazione mestruale: poteva essere utilizzato per l’autogestione dell’aborto, e di fatto lo era, ma le attiviste lo adoperarono soprattutto per aspirare in una volta sola la maggior parte del flusso mestruale e dare sollievo immediato dai crampi e altri sintomi o fastidi. E lo usarono, infine, come metodo anticoncezionale d’emergenza: una sorta di pillola meccanica del giorno dopo.

Non erano però favorevoli all’idea che ci fosse un Del-Em nel bagno di ogni donna né che il Del-Em diventasse lo strumento per fornire un semplice servizio, così come facevano ginecologi e cliniche. Il metodo dell’aspirazione voleva anzi ripensare la soluzione dell’aborto individuale all’interno di contesti collettivi e politici, centrati su comunità di femministe che lavoravano sulla propria sovranità riproduttiva.


Oltre i divieti

Il Del-Em riuscì ben presto a diffondersi ben oltre il contesto in cui era stato inventato consentendo di affiancare, e in alcuni casi di sostituire, l’organizzazione e il finanziamento dei viaggi all’estero o gli appuntamenti negli studi medici con gli interventi autogestiti: con pratiche collettive di aborti che da clandestini diventarono, a quel punto, militanti.

Il dispositivo tornò al centro del discorso pubblico alla fine degli anni Ottanta, a fronte del timore, già allora piuttosto concreto, che le garanzie riconosciute nel frattempo dalla legalizzazione dell’aborto dopo la sentenza Roe v. Wade venissero annullate.

E stavolta il Del-Em fu esplicitamente promosso dalle femministe che l’avevano inventato come tecnica autogestita per l’interruzione di gravidanza. Nel 1989 venne inoltre prodotto un documentario intitolato No Going Back: A Pro-choice Perspective: e anche se veniva spiegato che il video non volava essere un manuale di istruzioni, conteneva tre minuti in cui si mostrava un’estrazione mestruale dal vivo. L’avvertimento implicito era che le istruzioni su come ottenere un aborto non erano difficili da trovare.

Nel documentario le femministe affermavano che l’estrazione mestruale fosse una capacità che, come la rianimazione cardiopolmonare, andava appresa nella speranza di non doverla mai usare; ma volevano anche far sapere a tutti, Corte Suprema inclusa, che c’erano donne che conoscevano la tecnica, che era una tecnica facile e sicura, e che potevano insegnarla: i governi avrebbero anche potuto vietare l’aborto, dissero, ma di certo non i barattoli e i tubi per gli acquari. Non dimentichiamolo.

(i temi trattati appartengono in parte a Fare femminismo, di Giulia Siviero edito nel 2024 da nottetempo)


Giulia Siviero è autrice del libro Fare femminismo pubblicato da nottetempo. Giovedì 28 novembre, alle 19.00, sarà ospite del Festival diPassaggio di Genova (28 novembre-1 dicembre) dove parteciperà all’incontro Fare femminismo e dialogherà con Giovanni Ortoleva. Modera Valentina Beronio. Foyer Tonino Conte - Piazza Renato Negri.

© Riproduzione riservata