Cosa fa, di una casa, una casa? L’anima: il respiro di chi la abita; la macchinetta del caffè sul fuoco; l’odore del pranzo che impregna gli ambienti; una finestra socchiusa; un libro dimenticato su un comodino, con gli occhiali accanto, riposti senza fodero, in attesa di essere ripresi. Le case smettono forse di essere case quando non le abita più chi le ha pensate (alcuni le pensano così intensamente che restano a infestarle per sempre).

Le case piene di libri moltiplicano i fantasmi: le vite vissute, quelle sentite, quelle immaginate, quelle mai tentate di cui è rimasta solo l’idea. Ma i fantasmi non li fanno solo i libri, possono farli persino le mensole. In Inventario di quello che resta quando la foresta brucia di Michele Ruol (TerraRossa Edizioni), la mensola (una cosa e una parola apparentemente così priva di poesia) è il confine tra il prima e il dopo della casa raccontata nel romanzo.

In quella casa-non-più-casa dopo un terribile incidente che la priva subito della sua anima (Maggiore e Minore che non ci sono più), la mensola in stile rococò, finita per sbaglio in una partita di calcio immaginaria, odiata e poi, un giorno, rimpianta e desiderata («Quante volte vi devo dire che non si gioca a calcio in casa!») diventa uno dei tanti passaggi di dogana che segna il confine tra il passato del rimpianto e il presente dell’impotenza. In alcune vite, a un certo punto, si può rimpiangere anche un pezzo di legno.

Un oggetto insospettabile

La mensola è ancora luogo del ricordo, punto privilegiato d’osservazione dell’ultimo officiante di ciò che è stato («Ma l’orsacchiotto di pezza seduto sulla mensola, che ha vegliato su tutte le vostre notti insieme, sa che lei c’è. Lui è il guardiano della casa che non è più la casa»), nella casa de I dieci passi dell’addio di Luigi Nacci (Einaudi): casa non più casa, casa precaria e bivacco, dopo la fine di un amore («La casa senz’amore non è più una casa ma non si è ancora trasformata in qualcos’altro»), viaggio tra le ultime reliquie possibili («Prima di partire per ogni viaggio facevo una foto alle cose. Ai risvolti delle coperte. Alla polvere sulle mensole. Anche ai sassolini nel portagioie: li avevamo raccolti nei giorni in cui l’amore era grande. Fotografavo le macchie di sugo in cucina. Ne lasciavo lì apposta un paio. Mi sentivo un detective degli addii»), nel cammino dell’addio, cadenzato dai passi dell’amante viandante.

Camminare in queste case di carta, lega i passi dei lettori: le pareti diventano sempre più sottili e l’orsacchiotto custode e guardiano d’amore, sembra che faccia il paio con quello conosciuto e amato nelle pagine di Michele Mari: «orsino» è parola mariana nel vocabolario dei suoi fedelissimi lettori, in un lemma che si snoda in una serie di esempi dalle pagine dello scrittore milanese fino alle radici e alle vite di ognuno, di tutti quelli che hanno avuto un orsino («Non commuoverti troppo, perché ora vedrai una cosa che ti trafiggerà. E rividi l’amore di tutti gli amori, l’orsino, quell’entità spasmodica cui corrispondeva il flatus di orsino, il mio orso di stoffa grigia sdrucita ingiallita, macchiato, accecato, pisciottato, schiacciato», L’uomo che uccise Liberty Valance).

Gli accumulatori di carta e fantasmi, si sciolgono di fronte all’infanzia e alle loro cose, in generale – «son le cose che pensano e hanno di te sentimento», cantava Lucio Battisti dando voce a un testo di Pasquale Panella – i fabbricatori di parole e custodi dei ricordi non possono uscire dalle loro case (solo alcune, quelle elette, fisse, non transitorie, non quelle dei periodi nomadi), non potranno mai essere altro dalle loro cose: «Perché questo noi siamo: la nostra scrittura e le nostre cose; questo il nostro lascito e, ben più esattamente che in una nota biografica, il nostro curriculum», scriveva Michele Mari in quella piccola perla che è Asterusher (Corraini Edizioni).

I parolai custodi cercano le biglie di Mari in molti testi, da Tu, sanguinosa infanzia in poi: credono di poterle trovare nascoste perfino nell’immagine di copertina che dalle pagine di Asterusher rimbalza a Locus desperatus, l’ultima fatica dello scrittore: fatica, non come si suol dire, ma fatica intesa come lo sforzo di affrontare lutto e cambiamento, di abbandonare un pezzo di sé (questo si fa quando si lascia una casa), anzi tanti pezzi di sé, sanguinare a ogni dipartita perché ogni cosa (se non in tutte, ma sicuro in alcune case), è dotata di un senso altro («Io avevo dato senso e vita alle cose, scegliendole, collezionandole, amandole, considerandole parte di me, immettendovi la mia energia, e loro mi avevano sempre restituito tutto contribuendo alla mia identità e alla mia biografia, modulando i miei pensieri e i miei sogni», Locus desperatus).

Segni e pareti

La geografia del ricordo impregna i soffitti, le pareti: Mari, Nacci e Ruol confinano, si toccano. Il punto di tangenza di certe scritture esiste anche quando occupano latitudini e longitudini lontanissime. Un segno sul muro di una casa dalla prosa invecchiata, antica, figlia del demone della letterarietà («Un’ustione di Burri, una creta? Estetizzando estetizzando, fino a che punto si procrastinerà l’intervento?», Asterusher,) arriva a toccare quella di una casa dalla prosa scarna ed essenziale. Prosa che racconta quel che è rimasto di una famiglia (niente, forse), con le fratture sul pavimento della casa che ora non usa più nessuno, rigata dalla geografia della solitudine e dell’abbandono in ogni suo spazio, dal basso verso l’alto («L’umidità si condensa in gocce che si staccano dal soffitto e, pochi metri più sotto, si raccolgono in un minuscolo lago artificiale, sorto nel vano per la carta della stampante», Inventario di quel che resta). E tra questi due tipi così diversi di fare rumore della prosa, viene in mente anche il perimetro della casa di Nacci, la sua lirica quotidiana («Le stanze di una casa in cui c’è stato un grande amore ricordano tutto. Ci sono le vostre sagome impresse sui muri, sui pavimenti», I dieci passi dell’addio).

Le case sono case, fino a quando non diventano lutto: abbandoni, cambiamenti, morte, ogni fine cambia la loro natura: poi diventano qualcos’altro (vale anche per le cose). Quello che sono state, quello che non saranno mai più, quello che iniziano a essere da un certo punto in poi: l’ombra delle case sai quando inizia, ma non sai quando finisce.

Non sai chi le abiterà dopo, se qualcuno le abiterà, se resteranno con la polvere a depositarsi sui luoghi e gli oggetti, popolate solo dall’usura del tempo o se cambieranno i connotati e qualcuno le farà altro, senza che chi le ha abitate e vissute possa farci nulla: resteranno, finché qualcuno le ricorderà, fino a quando qualcuno ricorderà chi ci è stato. Tra dolori sopportabili, perdite lancinanti, giochi letterari, mancanze incolmabili, l’unico modo per continuare ad abitarle e abitare sé stessi è raccontarle e raccontarsi.

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