La raccolta Lettere familiari (Nottetempo) offre un interessante spaccato di scrittura privata. E ci fa sbirciare pagine intime di uno dei più luminosi autori del Novecento italiano
C’è sempre un misto di curiosità e ritrosia quando ci si avvicina alle lettere degli scrittori che amiamo. È vero che molti hanno allestito interi epistolari affinché diventassero pubblicazioni o comunque immaginandoli tali nel futuro: è il caso, per esempio, delle Lettere a un giovane poeta di Rilke, che racchiudono la difficile idea dell’arte come “una maniera di vivere”, di quelle che lo scrittore tedesco Gottfried Benn inviò a un industriale di Brema condensando le sperimentazioni che affolleranno i suoi libri, o di quelle, straordinarie, al guardiamarina Edgar Karg di Hugo von Hofmannsthal, insuperato tentativo di fare della poesia, la vita.
Diverso però è il caso delle lettere che non sono state direttamente pensate per diventare di dominio pubblico, perché se addentrarvisi da un lato offre la possibilità di ricercare nella vita degli autori gli snodi delle opere, dissetando così la curiosità morbosa del lettore, dall’altro permane una sorta di imbarazzo, la sensazione di ficcare il naso in un privato che non dovrebbe riguardarci.
Poco conta se mascheriamo questa intrusione come un dovuto pellegrinaggio al santuario dell’amato autore, l’indiscrezione è compiuta, ma una volta lasciati da parte i dubbi potremo riconoscere, nell’intimo dello scrittore, nella consapevolezza che leggiamo qualcosa che, a differenza dei libri, non è indirizzato a noi, il tesoro che incrementa l’opera e amplifica le vie interpretative nonché l’illusione, perché di questo in fondo si tratta, di conoscere “personalmente” il nostro scrittore.
Si tratta delle stesse sensazioni che generano le Lettere familiari di Giorgio Manganelli (nottetempo), che offrono un ulteriore passaggio sulla scrittura di uno degli autori più luminosi del Novecento italiano, dando la possibilità di addentrarsi nell’alveo della sua sfera più privata, le lettere inviate alla moglie Fausta Chiaruttini, alla figlia Lietta, al fratello Renzo, alla cognata Angiola e, infine, alla madre Amelia.
Anche Giorgio Vasta, che scrive un corposo e partecipato saggio introduttivo, riflette su cosa significhi sbirciare in questi spazi intimi e se queste pagine private aggiungano qualcosa di più a un’opera, già di per sé, assai corposa.
«Dove cercare la scrittura di Giorgio Manganelli – di uno scrittore che scrive sempre, qualsiasi cosa scriva, a oltranza – se non in ogni sua scrittura?», risponde Vasta, e in effetti anche queste lettere aiutano il lettore a insinuarsi tra gli interstizi più sottili del Manganelli scrittore, ritrovando forse il suo carattere più autentico, quello che riesce a fare meno della menzogna, parte imprescindibile della sua opera (si chiedeva non a caso Manganelli in Il rumore sottile della prosa: «Perché io scrivo? Ad esempio scrivo perché non so fare altro; o perché sono troppo disonesto per mettermi a lavorare», e ancora, «Probabilmente scrivere è il modo di frodare che tiene chi è nato ladruncolo o truffatore, ma non ha abbastanza coraggio per delinquere su grande scala»).
L’offerta di parole
Le lettere, scrive Manganelli nelle commoventi pagine indirizzate alla cognata dopo la sconcertante morte del fratello Renzo, sono infatti «l’unico modo che noi umani abbiamo per porci in una condizione di colloquio ininterrotto, un’offerta di parole che in ogni momento può essere presa, abbandonata, ritrovata».
Autore di un’opera capace di spaziare con la naturalezza propria dei grandi maestri tra narrativa e saggio, tra traduzione e diario di viaggio, riuscendo nel miracolo di mantenere sempre intatta la sua specifica lente sul mondo, Manganelli ha sempre dissimulato le proprie emozioni nello stesso modo in cui infarciva la sua opera di ossimori e glosse: ma nelle sue lettere avviene un miracolo, questo muro si sgretola pian piano e rivela un valore inedito della parola, quello della verità, dell’assenza di schermi protettivi, che dà l’illusione di intravedere il volto dello scrittore.
Ciò che infatti i lettori di Manganelli deducono da queste lettere è quello che le sue opere suggeriscono e che qui esplode in tutta la sua chiarezza: c’è la consapevolezza delle continue crisi psichiche («crisi verticali», definisce le più dure Manganelli che scrive al fratello: «Sono due anni che lotto in totale solitudine contro le angosce, i terrori, una ricorrente struggente voglia di farla finita») e l’inizio del percorso psicoanalitico con Ernst Bernhard, personalità attorno a cui gravitarono personaggi come Fellini, Cristina Campo o Natalia Ginzburg («So che ha guarito casi assai inquietanti: è un anziano tedesco, vive a Roma da molti anni. Speriamo sia la strada buona»), ci sono i dubbi di un padre che deve inventarsi tale e inizia a farlo con le lettere alla figlia Lietta («Cara Lietta, forse ci vorrà un po’ di tempo per conoscerci, per acquistare quella confidenza naturale e serena che deve esserci tra un padre e una figlia»), c’è l’amore puro per il fratello («Sei un fenomeno, una specie di peso massimo dei fratelli»), c’è un rapporto complesso con la madre che non può che risolversi in un regresso al momento della nascita («Ti devo chiedere una informazione che solo tu, verosimilmente, puoi darmi: vorrei sapere a che ora, quanto più esattamente, sono nato») e c’è la scoperta della morte come rivelazione della vita («Non si può conoscere la grazia terribile e celeste della morte senza esserne stati lacerati, senza averla accarezzata»).
La ricerca di senso
«Scrivere lettere è sempre pericoloso, in ogni caso gravido di minacce», ha scritto la poetessa americana Elizabeth Bishop a Robert Lowell in uno dei più mirabili epistolari del Novecento. Nelle sue lettere Manganelli sembra avvertire lo stesso pericolo, legato proprio al coraggio e alla complessità di mettere sulla pagina ciò che sente davvero, senza la mediazione, mefistofelica, della letteratura.
In uno dei suoi libri più belli, La letteratura come menzogna, che apparve come una cometa nel panorama della letteratura italiana degli anni Sessanta sparigliando le carte rispetto a una sua granitica appartenenza alla neoavanguardia, Manganelli scrive che la letteratura «possiede e governa il nulla» e che è «un artefatto di incerta e ironicamente fatale destinazione».
Ma questo inganno consapevole, ordigno finzionale tra le mani di ogni scrittore e, più di tutti, di Manganelli, si scioglie in queste lettere che diventano un contraltare limpido, un luogo dove le cose appaiono per quello che sono e la scrittura si concretizza nel tentativo di trovare un senso all’esistenza: «Tutta la mia vita è stata lo sforzo di trovare quel senso, di ricomporre la pagina agitata in una sintassi o poetica o metafisica o umana».
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