Cosa insegna il paese scandinavo all’Italia sulla violenza di genere? Per la politologa, la parità parte dalle classi. E Roccella sbaglia sui dati
L’Italia è uno dei pochi paesi europei a non prevedere l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole. Nonostante si continui a registrare un femminicidio ogni tre giorni e, nonostante secondo il Global Gender Gap 2024 del World Economic Forum, abbia uno degli indici di parità di genere più basso. Qual è il collegamento? «L’educazione sessuo-affettiva non si limita alla sessualità in senso stretto; abbraccia temi fondamentali come il consenso, la prevenzione delle violenze, il contrasto al bullismo e agli stereotipi di genere». Flavia Restivo, parte proprio da qui nel suo saggio: Gli svedesi lo fanno meglio. Come un’educazione affettiva e sessuale di stampo nordico possa cambiare (in meglio) il nostro paese. Uscito da un solo mese, ha in programma oltre 50 presentazioni. Politologa, autrice per Rizzoli e founder della campagna Italy Needs Sex Education, Restivo si occupa di educazione sessuo-affettiva da sei anni. «All’inizio ero praticamente la sola a parlare di questi temi, ora, soltanto la nostra rete conta 700 attiviste e attivisti sul territorio e 12mila iscritti alla newsletter. Qualcosa sta cambiando, almeno a livello di società civile».
L’introduzione del suo libro è affidata a un’economista, Azzurra Rinaldi, perché?
L’educazione finanziaria riguarda anche l’abbattimento degli stereotipi di genere. Secondo l’Istat soltanto il 52 per cento delle donne lavora; senza un’indipendenza economica è difficile uscire da situazioni di violenza. Non è un caso che in un paese come la Svezia ci sia parità di genere anche dal punto di vista lavorativo e retributivo.
Perché il modello svedese è migliore degli altri?
La Svezia è stato il primo paese a inserire l’educazione sessuo-affettiva, nel 1955, dopo aver sperimentato, nei decenni precedenti, come fosse utile parlare di questo argomento anche in modalità preventiva. Ora è una materia obbligatoria e curriculare: in settanta anni sono riusciti a normalizzarla, come se fosse l’ora di religione da noi. Hanno avuto la possibilità di imparare dai loro stessi errori, di rimodulare programmi, di aggiornarla in modo completo, di farla evolvere insieme alla società.
A che età si inizia e come sono impostati i programmi?
Si parte già dalla scuola materna. Pensa che sensibilità diverse possono sviluppare bambine e bambini con cui si affronta da sempre l’educazione sessuo-affettiva, perché è tardi al liceo, ma è già tardi anche alle medie. In Svezia dagli zero ai tre anni si affronta molto il tema del consenso, della prevenzione degli abusi, di come evitare situazioni spiacevoli. In un secondo momento si parla di sessualità in senso biologico, di come è fatto il nostro corpo. Soltanto tra le medie e il liceo si inizia a parlare di sesso vero e proprio, di masturbazione e di malattia sessualmente trasmettibili. Ma sempre alternando temi di parità di genere.
Un tipo di educazione che, quindi, riesce anche a ribaltare il concetto di mascolinità, il modo in cui i maschi vivono e si consentono di vivere le proprie emozioni.
Assolutamente. Noi siamo troppo vittime dell’idea binaria di genere. Faccio sempre l’esempio del “ragazzo coi pantaloni rosa”. Non si sarebbe mai ucciso se non l’avessero bullizzato. E il bullismo nasce anche dalla paura del diverso. In Svezia il pronome neutro “hen” è stato introdotto nel 2015 ed è molto usato anche alle materne per cercare di non far sentire esclusi bambini e bambine, per evitare un trattamento stereotipizzato e differenziato.
Che tipo di formazione ha il corpo docente?
L’educazione sessuo-affettiva è affidata a un educante esterno alla scuola: professioniste e professionisti altamente specializzati. Mentre il corpo docente deve seguire le indicazioni di un manuale aggiornato ogni anno che indica le linee guida per ogni materia. Quindi, ad esempio, l’insegnante di letteratura inglese sa che non dovrà parlare solo di autori maschi, ma anche di Jane Austen e Virginia Wolf. La parità deve essere rappresentata in tutti gli ambiti, è una visione pervasiva nei programmi scolastici.
La ministra Roccella afferma che: «I dati europei dimostrano che nei Paesi dove c’è l’educazione sessuale nelle scuole non c’è un calo dei femminicidi, anzi: in Svezia sono più che in Italia».
È vero che ci sono ancora i femminicidi in Svezia, ma non è vero che siano più che nel nostro paese: è solo un modo strumentale della destra di leggere i dati. L’educazione al consenso è fortissima: le donne denunciano anche baci non consensuali con il proprio partner. Il problema è che, non sempre queste denunce vengono prese in considerazione dalla polizia che non interviene. Un po’ come accade anche da noi.
Com’è cambiata la società svedese in questi settanta anni?
La parità di genere è presente in ogni campo, dal mondo del lavoro a quello familiare. La stessa genitorialità non è più considerata solo affare della donna: basti pensare che il congedo di paternità parte dai 90 giorni, mentre in Italia è di soli dieci. Sono diminuite le malattie sessualmente trasmissibili e le gravidanze indesiderate. L’accesso all’aborto è più che sicuro e, molto spesso avviene tramite la pillola. In generale possiamo parlare di una società più inclusiva a ogni livello.
E noi da che parte possiamo iniziare?
Non dico che potremmo fare come in Svezia sostituendo l’ora di religione con l’educazione sessuo-affettiva, ma basterebbe togliere dieci minuti a ogni lezione per ricavarne una a settimana. E iniziare a confrontarsi con i centri antiviolenza e con le associazioni - come quella romana di Selene, composta da ostetriche che si occupano di divulgazione - e gli enti sparsi sul territorio che da tempo se ne occupano. Un primo passo per aumentare la consapevolezza, aspettando le prossime elezioni. E un eventuale intervento legislativo.
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