Ospite del Lucca Comics&Games, l’autore si racconta a quasi 30 anni dalla prima pubblicazione in Italia: «Mai una mia parola è arrivata dal profondo del mio cuore. Ho scritto per intrattenimento e per divertire»
L’intuizione arrivò leggendo una guida tv. In un angolo di una pagina, in mezzo a tutte le programmazioni della giornata, c’era una pubblicità: «Goosebumps week on channel 11», cioè «Settimana di piccoli brividi sul canale 11». Era una rassegna di film horror, da lì “l’origine del mito”. «Così ho deciso di chiamare la mia serie di libri “Canale 11”», scherza Robert Lawrence Stine, abbreviato R. L. Stine, uno dei più prolifici autori per ragazzi degli ultimi tempi e autore, tra gli altri, della fortunata serie di romanzi Goosebumps, in italiano tradotta con il titolo Piccoli Brividi.
Nato a Columbus, in Ohio, nel 1943, e vissuto a Bexley, Stine in quell’anonima guida tv è riuscito a trovare il «titolo perfetto», dice lui. «È spaventoso, ma non troppo. Ed è divertente, non ti dà gli incubi, questo è importante. Non mi è mai piaciuto dare incubi alle persone». Più di trecento libri pubblicati in tutto il mondo, neanche Stine ne conosce il numero preciso. Ma non batterà mai lo scrittore fantascientifico Isaac Asimov, dice. «Viveva nel mio quartiere, lo vedevo sempre che andava alle poste per inviare i suoi manoscritti, e ogni volta ne aveva due o tre. Lui di libri ne ha scritti più di 500. Non credo lo raggiungerò mai. E lui scriveva libri veri (ride), mica piccolini come i miei».
Le statistiche di Stine, comunque, sono notevoli: due libri al mese, duemila parole al giorno. «Forse sto anche mentendo, non arrivavo sempre a duemila. Ma ogni volta che arrivavo a quel numero, interrompevo immediatamente, non importa dove fossi arrivato. Poi, scrivevo così tanto anche perché non uscivo molto ed ero più giovane, questo certamente aiuta», confessa simpaticamente.
Pubblicata per la prima volta nel 1992, Piccoli Brividi vende più di 400 milioni di copie in tutto il mondo, viene tradotta in più di 35 lingue e diventa una serie tv, dal 1996 al 1998, poi riproposta nel 2023, in cui Stine interpreta se stesso. Ma non nei due film, ad esempio, dove l’autore viene invece interpretato dall’attore comico Jack Black, che in quella circostanza presta la sua voce anche al terribile Slappy, il pupazzo parlante mascotte di Piccoli Brividi.
«Non ho mai capito perché facesse paura il personaggio di Slappy. Ho dovuto continuare a scrivere storie su di lui perché è diventato presto molto popolare, anche come maschera di Halloween. Forse si meritava così tante storie, ma non me le meritavo io. Ho scritto decine di libri su un pupazzo da ventriloquo che prende vita. Ma in fin dei conti, non posso lamentarmi, ovviamente», scherza l’autore.
R. L. Stine è ospite in questi giorni a Lucca Comics&Games, la kermesse dedicata alla cultura nerd che dal 30 ottobre al 3 novembre invade il centro storico della provincia toscana. Nel 2025, saranno trent’anni dalla prima pubblicazione in Italia di Piccoli Brividi, edita da Mondadori. «Se dovessi ambientare un libro di Piccoli Brividi in Italia probabilmente la farei a Venezia, in quei vicoli ho perso il senso dell’orientamento troppe volte».
Nei suoi libri si nota immediatamente un dettaglio importante, i bambini hanno sempre ragione.
Esatto. E gli adulti sono completamente inutili. Non credono ai bambini sull’esistenza di mostri e nella maggior parte dei casi non sono mai lì per risolvere la situazione. Il senso di Piccoli brividi è questo: questi sono ragazzini normali in situazioni orribili. Devono farcela con la loro forza di volontà, e la loro immaginazione.
Questa è la morale di Piccoli Brividi?
Scappare è l’unica morale di Piccoli Brividi. Io non voglio insegnare niente o inserire una morale nei miei libri. Perché leggere questi libri dovrebbe essere divertente. Noi siamo adulti e possiamo leggere qualunque cosa, anche libri senza una morale. I bambini dovrebbero avere lo stesso diritto. C’era una regola nella letteratura per ragazzi, che diceva che ogni personaggio, nel corso della storia, deve crescere e imparare. Ma perché i ragazzi non possono semplicemente divertirsi? Infatti ho sempre ignorato questa regola.
Lei non crede che scrivendo, in qualche modo, comunica qualcosa di lei come autore?
No, non lo credo. Molti scrittori, quando parlano ai bambini, dicono sempre: “Scrivete di ciò che conoscete, e scrivetelo dal profondo del vostro cuore”. Non sopporto questa frase, quei ragazzini probabilmente non scriveranno mai così facendo. In 300 libri che ho scritto mai una parola è arrivata dal profondo del mio cuore. L’ho fatto per intrattenimento, e per divertire.
Nel fare ciò ha reso il genere horror molto accessibile.
Volevo rendere veramente facile la lettura: nessuna parola ricercata e capitoli brevi. E per i cattivi mi ispiravo a tutti i film horror che ho visto quando ero ragazzino negli anni Cinquanta e Sessanta, come Il cervello che non voleva morire (1962) e Il mostro della laguna nera (1952). Molti di quei mostri arrivano proprio da quei vecchi film, così come i titoli stessi. Anche il design delle copertine, a loro modo. Ho sempre pensato che Piccoli Brividi avrebbe potuto essere scritto anche quando ero ragazzino io. Forse perché i bambini, in ogni generazione, non cambiano di molto. La tecnologia cambia, certamente, ma le paure non cambiano mai: la paura del buio, di un mostro sotto al letto, di perdersi.
Le sue storie si svolgono spesso in un’ambientazione molto simile agli Stati Uniti. Ha mai pensato ad altre ambientazioni?
Si svolgono, solitamente, nel giardino di qualcuno. Potrei anche ambientarla in Italia, ma i ragazzini non sanno dove sia l’Italia. Quando stavamo girando la serie tv originale, negli anni Novanta, abbiamo svolto le riprese in Canada. La produzione era interamente canadese, a Toronto. Durante un firma copie negli Stati Uniti, i bambini mi chiedevano come potevano apparire nella serie. Dicevo loro: “Beh, devi essere canadese per venire scelto come attore della serie”. Ogni volta, mi chiedevano: “Cos’è un canadese?”. Non una grande pubblicità per le nostre scuole.
Cosa ha pensato la prima volta che ha visto Piccoli Brividi prendere vita sul piccolo schermo?
Ho apprezzato molto le serie e i film (Piccoli brividi e Piccoli brividi 2 – I fantasmi di Halloween, ndr). A dire il vero sono stato molto fortunato, perché erano belli. Non è un dettaglio. Io in quel periodo ero molto impegnato nella scrittura e non ho potuto partecipare granché alla produzione, ma tanto i cineasti non apprezzano avere l’autore in giro per il set. Comunque è stato molto divertente vedere cosa sono riusciti a realizzare altri autori con le mie storie, vedere in quale direzione portavano quelle idee.
Lei non ha sempre scritto libri horror, giusto? Com’è arrivato al genere?
No, infatti. Ho lavorato per quindici anni alla Scholastic Press e per dieci anni alla rivista umoristica per ragazzi Bananas. Era un po’ il mio sogno lavorare a una prodotto editoriale di questo tipo, ma poco dopo la rivista cominciò a perdere il suo pubblico e mi licenziarono. Prima di allora non avevo mai preso in considerazione l’idea di scrivere anche cose spaventose. Qualche tempo dopo qualcuno mi spronò a scrivere un libro horror, mi diedero addirittura il titolo: Blind dates. Uscì e si piazzo al primo posto tra i libri best seller di quel periodo. Così ho pensato di lasciar perdere l’umorismo. Mi dissi che da quel momento in poi sarei stato spaventoso (ride).
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