“Siamo fatti di storie”, scrive Ted Chiang. E con le storie cerchiamo, a nostro modo, di capire il mondo.

La forma visibile, esistente in natura e strettamente collegata a tante matrici drammaturgiche del lavoro di lacasadargilla gioca con l’immagine di un polpo con i suoi circa cinquecento milioni di neuroni e un sistema nervoso distribuito in tutto il corpo, che ce lo fanno immaginare ovunque e in nessun luogo. Un piccolo animale-città.

Quell’organismo complesso che è per noi il teatro, non nasce da un’idea precostituita, piuttosto si è formato nel tempo da un pensiero desiderante verso qualcosa che ha intravisto, che è stato lasciato come impressione, psichica, artistica, politica, come tentativo e pratica, da altri prima di noi.

E questo ha a che fare con ogni scrittura che amiamo – scrittura intesa in senso ampio, barthesiano – che è tale anche perché ci ha mostrato una forma temporanea di quella cosa impossibile che è il reale. E ce l’ha lasciato da indagare, ricostruire, ridisegnare. Per questo forse alcune emergenze e nodi della drammaturgia del contemporaneo rilasciano un qualcosa all’interno del nostro operare che quasi coincide con le nostre vite.

Il nucleo familiare è quindi l’inevitabile regione in cui operiamo come una lente, un estensore, il germe e la forma drammaturgica esemplare per parlare del Fuori – quel mondo senza noi e quel qualcosa di non umano che ci riguarda e ci sopravanza. E che ci richiama sempre a una riflessione intorno al tempo, tempo espanso, piegato, frastagliato.

Perché le scritture che ci seducono, come organismi sociali e psichici, non possono che andare avanti e indietro – nel tempo – e di questo viaggio che procede per stratificazioni, variazioni e accumuli fanno una vera e propria forma stilistica. Il tempo come liquido amniotico in cui siamo immersi, come linguaggio e sapere, dimenticanza, presentimento e leitmotiv involontario.

Parole per un’ossessione

Temi che negli anni si sono articolati in altrettanti oggetti teatrali: Lear di Edward Bond, la guerra come assedio dell’anima, la realtà come un rebus grandeur nature, la violenza e i muri come strumento di controllo su confini, comunità e relazioni; When the Rain Stops Falling di Andrew Bovell, un grande viaggio genealogico sulla conoscenza e sul lasciare andare, attraverso il tempo inteso come kairos, come intreccio tra meteorologia e Storia; L’amore del cuore di Caryl Churchill, dove il linguaggio si spinge fino a un vero e proprio sabotaggio, della parola, delle relazioni, del teatro stesso e dell’intero sistema di segni attraverso la cui mediazione diamo senso al mondo; Anatomia di un suicidio di Alice Birch, tre movimenti temporali che si tramandano desideri, auspici, intenzioni e domande. Un’unica linea femminile legata alla vita, come per un incantesimo, dal più sottile dei fili che si dispiega simultaneamente come uno spartito musicale.

Una manciata di testi in fondo che hanno in comune quel mettere in parole qualcosa che ci ha sempre ossessionato con un dispositivo drammaturgico anomalo, una lingua e un andamento che riescono – parlando apparentemente di famiglia o meglio di ciò che ci è “familiare” – a ragionare sempre anche d’altro, come un avversario con cui ingaggiamo una tenzione. Perché a teatro per noi il motivo, inteso come ragione di vita e notazione musicale, sono un laccio solo.

Succede così che ci affidiamo a una scrittura originale e in vari gradi collettiva quando, tra i tanti testi che leggiamo per passione e professione, non troviamo quello che riesca a farci dire, come si parla a qualcuno di caro: «Ecco, ti ho trovato! Dove ti eri cacciato?». Oggetto fantasma, ecco il nome di queste drammaturgie miste, ed è il caso di Il Ministero della Solitudine realizzato con Fabrizio Sinisi, perché esse ereditano e contengono desideri mai confessati, bisogni e immaginazioni, tratti biografici e sperimentazioni linguistiche che erano in attesa di una forma concava che potesse contenerle.

Uccellini di Rosalinda Conti è – in questa storia che è la nostra storia – quasi un terzo paesaggio, inaugurato con il lento lavorio di un collaudo, testo già scritto di cui abbiamo accolto natura e misura, rimescolandone la matrice originale con la ri-scrittura di segmenti o intere minutaglie verbali. Quindi oggi potremmo dire che Uccellini è una delle lenti con cui abbiamo scelto di guardare il mondo. Perché questo testo sotto la trama – ancora una volta familiare – racconta di presenze e assenze, di umani (morti e vivi) e animali (vivi e morti).

E disegna minuziosamente coppie. Parla dunque di cose doppie e ambigue, delle conseguenze del credere ai fantasmi e di quelle del non credere a niente che non si possa toccare. Parla di sguardi discordi nel dare senso al mondo.

Uccellini è stato per noi un esercizio notturno sulle paure che ci costituiscono quando qualcun(altro) altro sembra scrivere la (nostra) storia. Qualcuno che vive degli ambienti. Più che tra gli uomini. E che aspetta accanto gli animali (notturni) che vi abitano.

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