- Nella terra di mezzo fra mostra del cinema di Venezia e inizio della stagione c’è il Solinas, il premio dedicato ai giovani sceneggiatori: avamposto meraviglioso, ma anche fucina di nuovi talenti
- C’è una generazione di scrittori attiva che sta cambiando dall’interno, anche se resta ingiustamente ancora troppo invisibile, i meccanismi narrativi e, indirettamente, anche produttivi
- Il bello è l’idea di futuro, nonostante sia evidente che questo è un momento di passaggio. Futuro che, tra un convegno e un bicchiere al porto, si prova a raccontare usando un vocabolario diverso,
«Ma poi, in definitiva, che cosa sono i film oggi? Servono ancora? Fregano a qualcuno?».
La domanda (le domande) che ci siamo fatti tante volte anche su queste pagine – una su tutte, in sintesi: come si gestisce questo passaggio ideale e reale dall’epoca della sala a quella dello streaming? – va dove la porta il vento sardo della Maddalena, storica terra del Solinas, il premio per i giovani sceneggiatori e anche lo splendido, ulteriore cuscinetto per cinematografari assortiti genialmente piazzato tra la Mostra veneziana e la ripresa nelle rispettive città (soprattutto Roma, si capisce, ma c’è pure qualche sparuto nordico come me).
Avamposto e fucina
Il Solinas come (avam)posto meraviglioso: gran parte del merito va data alla presidente e direttrice Annamaria Granatello, padrona di casa accorta ma che lascia tutti liberi di agire e reagire agli stimoli continuamente posti.
Il Solinas come fucina e cucina, luogo d’incontro e formazione, un incubatore, come si dice orribilmente oggi, di tutte le storie possibili, e le storie oggi chi lo sa dove vanno. È vero – altra domanda che qui rimbalza e rimbomba – che l’unica destinazione possibile sono le serie, le piattaforme? Si direbbe di sì, visto che ogni giorno ce n’è una nuova, «mo’ è arrivata pure Paramount+, che va bene eh…», però sottesa c’è anche la paura che l’offerta sia improvvisamente e paradossalmente più alta della domanda.
Le serie nel Dna
«Solo dieci anni fa, pure meno, nessuno mai avrebbe pensato che ci avrebbero chiesto di scrivere tutta questa roba», dice uno degli sceneggiatori senior, di quelli che fabbricano le storie italiane che guardiamo su schermi grandi e piccoli (soprattutto i secondi) e che qui sono invitati in veste di tutor di quegli altri, giovanissimi, che hanno mandato i loro soggetti per film e serie (soprattutto le seconde) e sperano di entrare nelle writers’ room di domani, oggi anche da noi si chiamano così.
«Mia figlia ha 27 anni, l’altra sera l’ho praticamente costretta a vedere insieme a me Non ci resta che piangere… dài, è scandaloso che non l’avesse mai visto… e la cosa ancora più assurda è che l’ha preso per una roba vecchissima, manco fosse Roma città aperta».
Tanti dei wannabe sceneggiatori qui presenti coi loro soggetti sempre meno chiusi tra Prati e il Pigneto, sempre più grandi e ambiziosi (ma poi chi troverà i soldi per produrli?), ambientati durante la Grande Guerra, oppure ambientalisti (quest’anno è stata inaugurata pure una sezione a tema green); ecco, questi aspiranti sceneggiatori hanno la stessa età di quella ragazza per cui Troisi e Benigni sono due neorealisti, e chissà che cinema (in senso allargatissimo) hanno in mente.
È morto Godard, è morto il Novecento: e quindi anche il cinema è irrimediabilmente defunto? «È che questi ragazzi hanno la serializzazione nel loro Dna anche di spettatori, sono cresciuti con i film di Harry Potter, e poi con quelli della Marvel, che sono già pensati come saghe a puntate».
Dove abbiamo sbagliato?
E allora – pare l’unica conclusione possibile – è ovvio che la loro idea di audiovisivo del futuro (del presente) è seriale, episodico, anche quando il soggetto non lo consentirebbe, e infatti siamo nell’epoca dei brodi allungati, delle storie che potrebbero essere film e si ritrovano, senza motivo né bisogno, miniserie (che comunque vuol dire otto-dieci puntate da almeno 50 minuti l’una, di “mini” ormai non c’è più niente).
«Ma anche a noi adesso chiedono solo le serie», dice una sceneggiatrice di quelle richiestissime, «io i film vorrei scriverli, addirittura i film d’autore», e lo dice con il tono di chi quasi sta bestemmiando, consapevole del fatto che il pubblico, persino lo zoccolo duro delle sale metropolitane una volta dette d’essai, è stato progressivamente eroso, e ora resta anche lui sul divano a guardare Skam.
«Ma i film», continua lei, «non li vuole più nessuno: i produttori anche meno degli spettatori, e mi pare una cosa molto grave, oltre che molto triste».
In cammino verso il convegno vista mare dal titolo “Dove abbiamo sbagliato?”, altra domanda a metà tra la terapia di gruppo e il dibattito da vecchia sezione del Pci, si commenta il buon dato in sala di Amelio (Il signore delle formiche), e la partenza non malvagia del debutto d’attrice di Elodie (Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa), ma l’impressione è che restino numeri e parole scambiati giusto fra addetti ai lavori, come se il film fosse un sopravvissuto da riserva indiana, un’entità da proteggere ma in cui in fondo si crede sempre meno.
Pure noi giornalistucoli e critichini da festival, all’ultima Venezia, abbiamo disertato moltissime proiezioni (il Leone d’oro, All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras, al Lido non l’ha visto praticamente nessuno: «Tanto ci manderanno un link») per ritrovarsi a chiacchierare, magari anche di cinema, ma senza che l’oggetto del contendere fosse più percepito come così rilevante o – aggettivo orribile ma caro ai cahiers da cinefili – necessario.
Algoritmo e futuro
«Non mi toccare il telecomando che mi sballi l’algoritmo», dice durante il convegno una regista citando il figlio adolescente di un amico, e sempre lì si torna. L’algoritmo è la maledizione e la delizia, il nuovo attore che tutto regola e tutto distrugge, che impone la fretta nei tempi di tutti (degli autori, che devono scrivere serie intere in poche settimane; e dello spettatore, che non se non si abbuffa di tutti gli episodi nei primi tre giorni dall’uscita quel titolo lo brucia).
Ma è anche l’elemento che sta creando una generazione di scrittori attiva, creativa, instancabile, giustamente celebrata anche qua, seppur in meravigliosa modalità “scialla”, tra un vermentino e un ultimo bagno a mare. Sono i Rampoldi, Sardo, Macchia, Gravino, Fabbri, Colella, Serino, elenco non esaustivo di una leva che sta cambiando dall’interno, anche se resta ingiustamente ancora troppo invisibile, i meccanismi narrativi e, indirettamente, anche produttivi.
Il bello è l’idea di futuro, nonostante sia evidente che questo è un momento di passaggio, come si diceva prima. Un futuro che, tra un convegno e un bicchiere al porto, si prova a raccontare usando un vocabolario diverso, e questa è la vera (bellissima) notizia. Bandita la parola “coraggio”, e soprattutto “Francia”.
A inizio lavori tra “quadri” del settore, qualcuno lo impone per davvero: «Smettiamola di stare qua a sproloquiare sul fatto che il sistema francese funziona meglio: lo sappiamo da sempre, pensiamo a come fare le cose bene qui da noi». Anche se col tempo i Cfo si sono sostituiti, fa correttamente notare qualcuno, a chi le case di produzione dovrebbe guidarle per conoscenza, cultura, uso di mondo (cinematografaro).
I nuovi soggetti vengono premiati, tranne quelli della Bottega della sceneggiatura, il progetto nato quest’anno in collaborazione con Netflix, che saranno annunciati al Mia, il mercato della Festa del Cinema di Roma. I lavori sono chiusi ma restano, si capisce, aperti: c’è da scrivere, letteralmente, tutto il cinema di domani.
Il viaggio di ritorno dall’isola (dei famosi: alcuni di già, altri chissà) è un’odissea. Il gruppo si divide, Roma contro Milano, tutti tornano a casa per il voto. Noi milanesi restiamo ostaggio per ore della compagnia low-cost, prima l’aereo guasto, poi ci caricano su un altro, arriviamo sopra Linate non si può atterrare, finiamo a Bergamo. «Su questa avventura ci si potrebbe scrivere un pitch». Decidiamo di chiamarlo Ali spezzate, la pilota del volo è una donna dunque abbiamo anche l’inclusivity. Ci vediamo per discuterlo al Solinas 2023, di sicuro qualche produttore ce lo prende.
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