Einaudi ha appena rimandato in libreria Scrivere è un tic, un libretto cult sul metodo di lavoro degli scrittori. L’aveva scritto, trent’anni fa, Francesco Piccolo, quando non era ancora uno scrittore e come tutti gli aspiranti aveva sviluppato una sorta di mania verso il modo di lavorare dei maestri.

Lui stesso nell’introduzione ammette che: «Trascrivevo pagine e pagine di scrittori che raccontavano come scrivevano, per quanto tempo, dove, come avevano cominciato e perché». Più che un libro organizzato come tale, una crescita spontanea di citazioni che hanno battezzato anche la nascita della casa editrice minimum fax, altro must generazionale di quelli nati nei Settanta.

Così scopriamo che per Proust era impossibile scrivere a tavolino, ma doveva restare seduto sul letto, con la schiena a pezzi. Hemingway invece è più pragmatico, e interrompe la scrittura soltanto quando sa come proseguirà: così l’indomani non dovrà ricominciare, ma solo continuare. Carver scrive attraverso la riscrittura, completa a mano una prima stesura, quasi frettolosamente, e poi il suo lavoro consiste in una estenuante ricalibratura (un singolo racconto può essere preceduto anche da una trentina di versioni).

La nevrosi

Certo, dal metodo al tic il passo è breve. Riflessione preliminare: la letteratura è la più incorporea di tutte le arti. Pensate a un pittore, a uno scultore, a un regista o a un danzatore: questi artisti non smettono mai di plasmare una materia tangibile, tele, pietre, set, corpi. Lo scrittore invece non ha appigli nel fare ciò che fa, e la sua arte è tutta mentale, il suo tavolo di lavoro innanzitutto si trova dentro il cervello.

Da qui, la nevrotizzazione da parte dello scrittore dei pochi oggetti che costituiscono gli utensili del suo lavoro, lo sforzo d’inventarsi una realtà da abitare, da dove magari poter dire: se vado lì vuol dire che sto lavorando (anche se ormai tutti sanno che gli scrittori lavorano sempre, soprattutto quando non ne hanno l’aria e si trovano lontani dalla loro scrivania). Insomma, lo studio letterario (e la routine che ci gira attorno) è l’artificio più grande, la vera opera d’arte degli scrittori.

Metodi bizzarri

Di questi impacciati tentativi da parte degli scrittori di dare un’espressione compiuta al loro ineffabile lavoro – peso all’impalpabile, colore all’evanescente, profilo all’informe –, ce ne sono a bizzeffe, e il loro racconto è un genere letterario a sé stante. Thomas Wolfe per scrivere si masturbava. Accarezzarsi i genitali, secondo lui, favoriva «una sensazione tanto forte e bella» da alimentare le sue energie creative, mentre Truman Capote per riuscire a combinare qualcosa doveva fumare, ma non sopportava di vedere nel posacenere più di tre mozziconi di sigaretta.

Vezzi, tic, manie abbondano nella descrizione del disperato tentativo da parte degli scrittori di rendere la scrittura un lavoro come un altro, una routine fatta di gesti tutti uguali, un rassicurante tran tran in grado di trasformare l’artista in un colletto bianco. Tra i più abitudinari, Thomas Mann si svegliava sempre prima delle otto, e dalle nove fino a mezzogiorno ai figli era proibito profferire parola per non disturbare l’attività del padre: un lavoro compiuto senza strappi, che procedeva «un passo lento alla volta».

Anche Haruki Murakami segue una sfilza di prescrizioni durante la stesura di un romanzo: sveglia alle quattro di mattina e lavoro continuativo per quattro o cinque ore; dopodiché corsa o nuoto perché per scrivere «la forza fisica è essenziale tanto quanto la sensibilità artistica».

L’ebbrezza dei tasti

L’intento di Piccolo è nobile: sradicare quei luoghi comuni sulla scrittura intesa solo come fuoco sacro e talento offerto dalla Musa. Più che l’ispirazione conterebbe la traspirazione, ed è facilmente comprensibile come questo approccio sia da tenere nella massima considerazione per l’aspirante scrittore. Tuttavia si insiste così tanto su questo punto, che viene quasi voglia di rovesciare di nuovo la prospettiva.

La routine – così importante per elevarsi dalle secche del velleitarismo – porta con sé i germi del rito. Nella scrittura ci sono dei gesti che vengono ripetuti, ma così come accade in una liturgia. Si pensi solo alle dita che si muovono sulla tastiera. Il lavoro dello scrittore si basa unicamente sulla ripetizione di un gesto elementare: il premere dei pulsanti.

La voluttà, tutta la voluttà possibile, consiste nel picchiettare su dei tasti, raggiungendo attraverso di essi una specie di trance sciamanico, che tutto sommato è alla portata di un genio come di un dattilografo. È un trip tattile e sonoro allo stesso tempo, in grado di portarti realmente fuori dal tempo e dallo spazio conosciuti, un po’ come mangiarsi un fungo allucinogeno. Lo scrittore insomma non ce la fa a dissimulare fino in fondo l’eccezionalità del suo lavoro, che resta un mistero quasi teologico, senz’altro sacro.

Sorretto da una forza per certi versi sovrannaturale William Faulkner scrisse Mentre morivo di pomeriggio, prima dei turni di notte che faceva come sorvegliante alla centrale elettrica dell’università: «Scrivo quando mi sento di farlo e mi sento di farlo ogni giorno» era solito dire.

Philip Roth, recluso in un austero edificio del XVIII secolo nella campagna del Connecticut, invece qualche anno fa ha dichiarato che «scrivere non è un lavoro duro, è un incubo. Il lavoro in sé è molto ripetitivo. In effetti, ogni scrittore deve avere la capacità di rimanere fermo e immobile, perché è un lavoro assolutamente privo di eventi di rilievo».

L’aforisma di Flaubert

Tra tutti i consigli, quello capitale (anche secondo Piccolo), l’ha dato Gustave Flaubert: «Bisognerebbe vivere come un borghese e scrivere come un pazzo». L’unico metodo che deve adottare uno scrittore è quello di scrivere ogni giorno. Se scrivi tutti i giorni sei uno scrittore, sennò non lo sei. Che è un po’ quello che dico a me stesso quando voglio farmi coraggio.

Ho sempre scritto, nonostante tutto. Ho scritto dovendo pagare le bollette, ho scritto traslocando, ho scritto facendo altri lavori anche lontanissimi da quello della scrittura (con relativo immane sperpero di energia per evitare la schizofrenia), ho scritto sotto la doccia invece di fischiettare e naturalmente sulla tazza del cesso, ho scritto pregando (e a volte ho pregato scrivendo), ho scritto sia che la mia squadra del cuore vincesse sia che perdesse, ho scritto guardandomi allo specchio (fuor di metafora), ho scritto bestemmiando, ho scritto cercando di tenermi in forma, ho scritto anche quando non avrei dovuto (rendendomi conto molto presto che per me andare in “vacanza” sarebbe stato impossibile), ho scritto indifferentemente con un sorrisetto arrogante stampato sulla faccia e con gli occhi umidi di pianto, ho scritto guidando, ho scritto prendendo milioni di caffè, ho scritto cercando di leggere, pur sapendo che non avrei potuto farlo con la spensieratezza di un vero lettore, ho scritto litigando con editori e uffici stampa, ho scritto stringendo e troncando amicizie, ho scritto scrivendo per i giornali, ho scritto anche mentre ero impegnato in cose belle ma dispendiosissime (esempio: scopare), ho scritto soffrendo per amore, ho scritto ammalandomi e dovendomi curare e vedendo ammalare altri e dovendoli curare, ho scritto perdendo la pazienza e anche, talvolta, la speranza, da giovane ho perfino scritto aspettando di diventare uno scrittore cioè aspettando d’iniziare a scrivere per davvero, ma siccome questa è la vita e tutti gli scrittori hanno scritto nelle mie medesime condizioni, non me ne farò un vanto.

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