Dal 27 ottobre all’8 dicembre nella basilica vaticana sarà visibile la Cattedra di san Pietro. Un cimelio dalla storia fascinosa e sorprendente, che esprime l’autorità della sede romana
Quasi a compensare un mese di dibattiti inconcludenti durante il sinodo sulla sinodalità, per la prima volta criticato apertamente anche da sostenitori di papa Francesco, il pontefice ha deciso di segnarne la conclusione ribadendo con un simbolo chiarissimo l’autorità romana. Dal 27 ottobre, infatti, e fino all’8 dicembre nella basilica vaticana sarà visibile la Cattedra di san Pietro, cioè il cimelio – non più esposto da oltre un secolo e mezzo, oggetto di nuovi studi e appena restaurato – racchiuso nella mirabolante macchina barocca immaginata da Bernini, che per alcune settimane inevitabilmente entrerà un po’ in ombra.
Lo straordinario artista che servì ben sette papi sarà comunque in primo piano grazie a un’iniziativa che ha riguardato un’altra sua stupefacente realizzazione: il restauro – anch’esso da poco concluso e svelato dal 27 ottobre – del gigantesco baldacchino che, al di sopra dell’altare papale, s’innalza verso la cupola. Questa a sua volta s’inarca «esattamente sul sepolcro del primo vescovo di Roma», come annuncia Pio XII il 23 dicembre 1950 chiudendo il giubileo del «grande ritorno» dopo la catastrofe immane della guerra.
La storia della cattedra
Fascinosa e sorprendente è la storia dell’antico manufatto considerato tradizionalmente la cattedra di san Pietro, festeggiata il 22 febbraio. In quel giorno a Roma si celebravano i feralia, onorando i defunti attorno a un sedile vuoto che ne indicava la presenza. Già nella prima metà del IV secolo la ricorrenza viene cristianizzata e la si fa coincidere con l’inizio del supposto episcopato di san Pietro.
La cattedra conservata è un trono ligneo che fa la sua apparizione nella basilica vaticana a partire dal XIII secolo. Venerato dai fedeli e portato in processione, nel 1666 viene collocato – e di conseguenza nascosto – all’interno della custodia realizzata da Bernini. Nell’abside il grandioso trono bronzeo che la contiene è sorretto da quattro santi «dottori della chiesa»: i latini Ambrogio e Agostino e, dietro di loro, gli orientali Atanasio e Giovanni Crisostomo, arcivescovi rispettivamente di Alessandria e di Costantinopoli.
Da allora di rado esposto ai fedeli, il trono ligneo contenuto nella custodia berniniana è al centro dell’ostensione pubblica voluta da Pio IX nel 1867 per concludere il diciottesimo centenario del martirio di san Pietro. Nell’occasione il cimelio viene esaminato da due archeologi, Giovanni Battista de Rossi e il gesuita Raffaele Garrucci, che l’assegnano all’età carolingia, e più precisamente al regno di Carlo il Calvo. Incoronato imperatore da papa Giovanni VIII nell’875, il sovrano carolingio dona il trono al papa.
Passa un secolo dall’ostensione e nel 1968 è Paolo VI ad autorizzare nuovi esami scientifici della cattedra lignea, la cui datazione medievale viene sostanzialmente confermata. Resta però un enigma: la parte anteriore del trono è infatti decorata da un pannello d’avorio costituito da diciotto quadretti incorniciati d’oro che su tre file rappresentano le fatiche di Ercole e figure mostruose. Sono anch’essi di età carolingia o più antichi?
La maggioranza degli esperti inclina per il medioevo, considerando Ercole un simbolo di Cristo, ma non è convinta l’epigrafista Margherita Guarducci, che negli anni precedenti aveva ardentemente sostenuto l’autenticità delle reliquie di san Pietro ritrovate nella necropoli sottostante la basilica vaticana. In modo ancora più brillante la tenace studiosa collega le decorazioni eburnee del trono a Massimiano, il tetrarca che alla fine del III secolo si denomina Erculio richiamandosi appunto a Ercole, come poco più tardi fa anche Costantino.
Ecco dunque la ricostruzione della studiosa: proprio l’imperatore favorevole ai cristiani avrebbe donato a papa Silvestro una cattedra decorata con questi avori che poi – deterioratosi il trono ligneo costantiniano – sarebbero stati riutilizzati per quello di età carolingia. A sostegno della convincente ipotesi Guarducci riconosce la cattedra imperiale costantiniana nei mosaici di San Paolo fuori le mura e in quelli di Santa Maria Maggiore risalenti al V secolo: è la prova decisiva.
Pietro e Paolo a Roma
Il simbolo della cattedra di san Pietro esprime l’autorità della sede romana. Nel 449, pochi anni dopo la realizzazione dei mosaici che la raffigurano, dalla Siria il vescovo Teodoreto scrive infatti a papa Leone che Pietro e Paolo «hanno dato alla tua cattedra una gloria incomparabile, ne costituiscono il tesoro più prezioso». Anche se non sono loro i fondatori della chiesa di Roma.
Pochi anni dopo la crocifissione di Gesù, avvenuta molto probabilmente il 7 aprile dell’anno 30, giungono infatti a Roma alcuni missionari ebrei suoi seguaci. Nella capitale dell’impero da un paio di secoli si era insediata, soprattutto a Trastevere, una popolosa comunità giudaica, la più antica d’Europa, e qui logicamente si stabiliscono questi ebrei credenti in Gesù. Sono dunque queste le origini – avvolte peraltro nell’oscurità – della chiesa romana. Questa tuttavia a partire dalla fine del I secolo si richiama a Pietro e Paolo.
Il motivo del patronato più celebre e invidiato nella storia del cristianesimo è molto semplice: proprio a Roma i due apostoli sono testimoni – mártyres, in greco – fino a versare il sangue durante la persecuzione di Nerone, tra il 64 e il 67. Entrambi però arrivano nella capitale dell’impero dopo i primi anonimi missionari: Pietro in circostanze del tutto ignote, Paolo nel 61, dopo un viaggio avventuroso di cui negli Atti degli apostoli sono sopravvissuti persino frammenti di un vivace diario, i cosiddetti «brani del noi» (Wirstücke, nel tedesco dei commentatori).
Dubbi e testimonianze
Diverse sono le ipotesi sull’arrivo di Pietro a Roma, assente nei testi biblici. Durante il medioevo i valdesi pensano che l’apostolo non sia mai giunto a Roma. Dubbiosi si mostrano poi nel 1326 Marsilio da Padova e più tardi i protestanti. Alcuni – scrive Lutero – «dicono che Pietro non è mai venuto a Roma, e sarà difficile al papa difendersi da questi studiosi». Ma in realtà è solo la polemica antiromana a motivare i dubbi.
Molto più tardi storici protestanti e laici d’indiscusso rilievo, da Renan ad Harnack, si dichiarano al contrario sicuri della venuta a Roma anche del primo degli apostoli. Rifiutare il soggiorno romano di Pietro è «un errore oggi chiaro come il sole per ogni studioso che non si accechi volutamente» scrive tagliente Harnack nel 1897. E sulla sua linea si schierano poi Hans Lietzmann, Oscar Cullmann e Kurt Aland. Ma, a differenza di Paolo, resta l’incognita di quando il pescatore seguace di Cristo sia arrivato nella capitale dell’impero.
Una notizia dello storico Eusebio di Cesarea racconta di un incontro di Pietro a Roma con Filone, nel 41 capo della missione che i giudei alessandrini inviano a Caligola dopo un orribile massacro dei loro correligionari, e su questa base – peraltro incontrollabile – si è ipotizzata una prima venuta dell’apostolo, che poi sarebbe stato espulso nel 49 e più tardi tornato. Ma secondo ipotesi più probabili Pietro sarebbe arrivato dopo Paolo.
Sicuro è invece il loro martirio. Dopo di loro non pochi cristiani cadono vittime nei tre secoli seguenti: di repressioni intermittenti fino al 250, poi di persecuzioni vere e proprie, da quella di Decio fino alla più dura, scatenata da Diocleziano nel 303 e che si estende per un decennio, ma che a Roma si esaurisce nel 306.
A questa storia eroica, che emerge da una quarantina di passiones latine scritte tra il 425 e il 675, la Fondazione Valla dedica un progetto curato da Michael Lapidge in tre volumi di cui è uscito il primo (Martiri di Roma, Mondadori). Sono testi, un tempo popolarissimi, grazie ai quali – sia pure attraverso rivestimenti leggendari e romanzeschi (fino all’invenzione nel XIX secolo di una santa inesistente come Filomena) – si arriva a figure storicamente accertate. Dal diacono Lorenzo, terzo patrono di Roma, a santi celebri come Cecilia e Sebastiano.
Nel 1967, nel diciannovesimo centenario del martirio dei due patroni romani, Paolo VI fa preparare dai biblisti gesuiti Carlo Maria Martini e Nereo Venturini una raffinata edizione degli Atti degli apostoli e per Natale la manda «ai cittadini di Roma». Definendosi «misero ma autentico successore di Pietro e di Paolo», Montini raccomanda il libro con una sua breve lettera: «Val la pena, ve lo assicuriamo, di rileggerlo e di “pensarci su”». Perché è una «meravigliosa storia, che fa derivare, nelle più singolari, stupende e tragiche avventure, da Cristo la chiesa, fra tutte prima quella di Roma».
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