Il secondo numero (qui il primo) della rubrica di Antonio D’Orrico: cenette settimanali e sentimentali, a menù fisso con lettori vecchi e nuovi
Domenica scorsa
E così se ne è andato anche il dottor Kildare. Molti (soprattutto donne) hanno pianto, alla notizia della morte di Richard Chamberlain, pensando al Padre Ralph di Uccelli di rovo, sex symbol anni 80. Il mio Chamberlain, invece, era l’eroe non ancora trentenne dei telefilm, meravigliosamente kennediani, che vedevo da bambino negli anni 60. Parlo di Jim Kildare, chirurgo al Blair General Hospital, che somigliava, non solo fisicamente, al presidente ucciso a Dallas. Idealista come JFK, si batteva per un mondo migliore, nel suo caso sub specie sanitatis, ribellandosi ai primari supponenti e impreparati e beccandosi i rimproveri del capo, il dottor Gillespie. Guardavo Kildare e da grande pensavo di fare il medico.
Domenica scorsa sera
Niente di nuovo sul fronte del calcio giocato, Inter e Napoli hanno vinto. Passando al calcio parlato, i presidenti delle squadre sono sempre più spocchiosi, presenzialisti, saccenti. De Laurentiis, Cairo, Lotito sembrano maschere della Commedia dell’Arte, caratteri di Molière. Percassi dell’Atalanta no, lui è diverso, forse perché ha giocato a pallone in serie A, non è un parvenu. Diversi sono anche i ricchissimi (e non avari) proprietari del Como. Non si fanno mai vedere e al posto loro appaiono sulle tribune del Sinigaglia Hugh Grant o altri testimonial di uguale glamour. Il Como è squadra glamour e, tornando al calcio giocato, schiera il più fuoriclasse di tutti: Nico Paz, il Francis Scott Fitzgerald del football per stile, eleganza, talento.
Lunedì (scorso)
Giuseppe Culicchia, scrittore bravo e un po’ trascurato (faccio ammenda), era cugino di Walter Alasia, brigatista rosso che uccise e fu ucciso in azione. Culicchia gli ha dedicato tempo fa Il tempo di vivere con te. Libro intenso, dal titolo battistiano perché Alasia era un fan del grande cantautore, malgrado le voci che correvano su di lui ai tempi: che era di destra e che il verso «planando sopra boschi di braccia tese» (La collina dei ciliegi) era un coming out di saluti romani.
Un altro memoir (La bambina che non doveva piangere) Culicchia lo ha dedicato alla zia Ada, sorella di sua madre e mamma di Walter. Una coppia di libri sugli anni di piombo molto originale, molto personale (caso più unico che raro di familismo morale), diventata adesso trilogia con Uccidere un fascista (Strade Blu Mondadori), lungo, straziante necrologio, romanzo obituary, cronaca della morte annunciata (ma senza svolazzi alla García Márquez) di Sergio Ramelli, che non era parente di Culicchia. Un libro che colpisce, che turba. Perché è tecnicamente davvero ben fatto. Perché è coraggioso (il minimo che diranno a Culicchia è di strizzare l’occhio al melonismo). Perché è difficile scrivere un racconto sentimentale sugli anni di piombo, sull’orrore di quei tempi (pronunciare la parola “orrore” come Marlon Brando in Apocalypse Now).
Culicchia dà del tu al protagonista (uno dei tocchi sentimentali che dicevo): «Tu Sergio, che come Walter portavi i capelli lunghi e tifavi per l’Inter e ammiravi gli indiani d’America e che però anziché a basket giocavi a calcio e ascoltavi anche tu Lucio Battisti ma adoravi in particolare Adriano Celentano, fosti ferito in modo non solo brutale, ma infine mortale, a pochi passi da casa da persone che a loro volta non ti conoscevano. E per chi legge queste righe tu sei, a seconda dei casi, un camerata oppure un “fascio”. E dunque, o sei un martire oppure hai fatto la fine che meritavi». Ne riparleremo di questo libro speciale.
La notizia dominante dei tg è la condanna di Marine Le Pen. Mi sembra più che giusta per una ladra matricolata. Manca solo una pena accessoria: d’ora in poi dovrà farsi chiamare Arsenia Le Pen registrando il nuovo nome all’anagrafe.
Martedì scorso
Da Uccidere un fascista: la canzone di Celentano preferita dal ragazzo Ramelli era Prisencolinensinainciusol, pezzo, secondo molti, anticipatore di rap e hip hop. Forse Celentano si rifaceva al grammelot di Dario Fo. E magari prefigurò il conte Mascetti del grande Tognazzi in Amici miei («Antani, come se fosse Antani, anche per il direttore, la supercazzola con scappellamento»).
In materia di grammelot, di lingue inventate, il vero maestro fu Fosco Maraini con le sue fànfole. Bellissima è Il giorno ad urlapicchio: «Ci son dei giorni smègi e lombidiosi / col cielo dagro e un fònzero gongruto / ci son meriggi gnàlidi e budriosi / che plògidan sul mondo infrangelluto». Non ci crederete, ma è una poesia d’amore, dolcissima e, secondo me, di purezza wittgensteiniana. Per finire questo trattatello (illogico e non filosofico), Prisencolinensinainciusol non è tra i pezzi che amo del Molleggiato (come, per esempio, la struggente canzone di Mogol e Gianni Bella per Battisti morto: «Io son partito poi così d’improvviso…»).
Mercoledì scorso
Aspettando Milan-Inter, leggo i giornali (un tipo ha puntato una pistola alla nuca di un medico ordinandogli di salvare sua madre). Penso, ancora in lutto, al dottor Kildare, guardo suoi vecchi telefilm. Rovistando in archivio, pesco un fumetto sul Corriere dei piccoli tratto dai telefilm di Kildare (con la faccia di Chamberlain).
P.S. «Mi piacciono i libri gialli perché sono come il calcio: hanno un inizio e una fine» dice l’ex ala Domenico Marocchino intervistato da Furio Zara. Stasera il derby è stato un giallo senza colpevoli.
Giovedì scorso
Per esigenze di copione, Kildare doveva apparire come uno sciupafemmine (kennedianamente?). In un telefilm un’infermiera bionda e prosperosa ancheggia nei corridoi dell’ospedale e i maschi si girano tutti guardarla, ma lei non ha occhi che per Kildare. Nel fumetto, un’infermiera bionda (la stessa?) va a cena col dottore. Da programma dovrebbe seguire un ballo cheek to cheek e poi l’eterno (si spera) gioco del dottore e l’infermiera… Ma sul più bello Kildare, che è reperibile, corre all’ospedale per un’urgenza.
Mi viene un sospetto. Cerco indizi a supporto. In un telefilm, Kildare litiga con l’odioso primario di ortopedia che gli rinfaccia di essere «elusive», sfuggente. Strano aggettivo, strana accusa.
Nel fumetto del Corrierino, Kildare si ritrova inopinatamente (ma vestito di tutto punto) dentro un bagno turco tra uomini seminudi. Scena bizzarra.
Allora mi ricordo di Gore Vidal (kennediano doc e scrittore così e così, perdutamente gay) che narrava di aver sceneggiato il film Ben Hur infarcendolo di sottintesi omoerotici. Gli sceneggiatori di Kildare si dilettavano allo stesso modo?
Soltanto nel 2003, a 69 anni, Chamberlain dichiarò di essere gay, ma lo sapevano già tutti (L’altra faccia dell’amore, il film dove interpretava appassionatamente Čajkovskij, era inequivocabile). Non voglio fare il Gore Vidal della situazione, però per me gli sceneggiatori di Kildare gli davano dell’«elusive» non a caso (suona allusivo, un dire e non dire). Pure la scena al bagno turco è tirata per i capelli, sembra voler suggerire altro. Ma vuoi vedere che la serie di Kildare è una serie criptogay? Devo chiamare lo psicoanalista?
P.S. Ah, dottore, avevo 16 anni e la sensualità di Glenda Jackson in L’altra faccia dell’amore e in Donne in amore non mi dava scampo!
Ieri
Al secondo numero, questa rubrica non ha ancora un titolo. Il mio, «Spaghetti & Moretti, la birra», omaggio ai tifosi del Newcastle, forse non piace al giornale. E io che speravo diventasse il nome di una catena alla moda di ristorantini italiani.
Sentiamo che ne dicono i lettori.
Leonardo Ciomei: «Il titolo della rubrica è molto bello ma la Moretti non è “di tendenza”. Adesso i gastrofighetti si attovagliano sì con spaghetti (rigorosamente di piccoli pastifici), ma accompagnati da costose birre artigianali che fanno a gara per il nome più originale».
Giovanni Fedele, lettore cosentino come me: «E io che pensavo ai gelati “moretti” che vendeva la gelateria Zorro di Piazza dei Valdesi...».
Filippo Veltri, vecchio amico, collega e conterraneo: «Moretto del bar di Zorro meraviglioso…».
Allora Spaghetti & Moretti (nel senso, anche proustiano, del mitico gelato)? Il seguito alla prossima puntata.
Per chiacchierare con Antonio D’Orrico e scrivergli, la mail è lettori@editorialedomani.it
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