Ogni scelta personale dei ventenni e dei trentenni deve fare i conti con vincoli strutturali. Le relazioni, la genitorialità, la realizzazione professionale: tutto viene ridefinito all'interno di nuovi parametri, dove l'instabilità diventa paradossalmente l'unica costante
Stanze in affitto che dovevano essere solo temporanee ma che vanno oltre il 4+4, contratti di lavoro che durano quanto una stagione mentre fuori dalle rotte tradizionali i freelance rimbalzano fra progetti rimandati a data da destinarsi, a “quando c’è budget”. Da questa interferenza si ricava la formula del fallimento generazionale: stipendi fermi contro affitti in ascesa. Un monolocale a Milano costa quanto uno stipendio medio, una stanza singola può arrivare a 900 euro, quelli che hanno fatto un “affare” per la stessa cifra vivono in un monolocale.
In questo scenario, i trentenni e ventenni di oggi si distinguono solo per il momento della disillusione: i primi l’hanno vissuta come un tradimento, i secondi come un dato di partenza.
Questa precarietà economica e abitativa si riflette inevitabilmente sui legami, creando dinamiche inedite e spesso conflittuali. Vivere in un costante stato di transizione non è solo una questione pratica, ma diventa un filtro che modella il modo di pensare al futuro e di costruire rapporti duraturi.
La provvisorietà diventa il regista non richiesto delle relazioni, come racconta Michele Marchi, autore e cantautore. «La preoccupazione costante si traduce in tensioni relazionali. La pressione sociale non aiuta: ti sembra di non vivere sul serio una vita da adulto».
Una generazione intera improvvisa soluzioni creative spesso inadeguate: l’ex che diventa coinquilino per necessità o il divano letto in salotto che diventa una stanza, perché «vivere da soli è diventato un lusso che in pochi possono permettersi», come conferma ancora Michele parlando di un’amica con una relazione a distanza. «L’affitto e le bollette non le dividi con nessuno, la spesa non la dividi con nessuno. Sono banalità che pesano enormemente sul bilancio mensile».
Pratiche di adattamento
Non sono più scelte, sono necessità che riscrivono le traiettorie di un’intera generazione. Il “posto fisso” non esiste più, ma nemmeno il “posto” (inteso come luogo in cui si vive o lavora) è così fisso.
Bart Schepens lavorava per una società di leasing ma era stanco della ripetitività della vita di ufficio. Durante il Covid inizia a non potere più del lavoro e si dimette. Un mese dopo lascia il Belgio e inizia a girare l’Europa in van.
«La ragione principale per cui ho deciso di vivere in un camper è stata la mancanza di avventura e libertà nella mia vita», spiega Bart. «Invece di cercare un appartamento, ho continuato a vivere con i miei genitori per risparmiare il più possibile». Dopo tre anni non si è ancora pentito di questa scelta.
«Ci ho messo un anno per restaurare il camper da solo, un vecchio Volkswagen Transporter battezzato Olaf. Volevo lavorare sul camper da solo per imparare a usarlo e risparmiare soldi. I primi due anni li ho vissuti principalmente con i risparmi. Ho lavorato solo per due mesi durante questi primi due anni. Il terzo anno ho ricevuto un’offerta di lavoro e da allora viaggio “solo” il 50 per cento del tempo. Ho la flessibilità e posso lavorare da remoto come sales manager. Solo quando sono in Belgio vado in ufficio. Ho ricevuto l’offerta di lavoro da un mio amico che conosceva la mia situazione di viaggio e mi ha dato la possibilità di lavorare per lui».
La vita va avanti tra velleità e adattamenti. Un contratto che scade diventa l’occasione per reinventarsi freelance. Le passioni si trasformano in side hustle (attività parallele) poi magari in lavoro principale, poi di nuovo in hobby quando i conti non tornano.
«Mi sono rimesso a fare musica dopo dieci anni proprio “grazie” alla fine di una relazione e alla noiosissima cantilena di un lavoro frustrante», racconta Michele. «La mia creatività si risveglia proprio quando tocco il fondo della routine. Mi chiedo se funzionerei allo stesso modo se potessi occuparmi di musica a tempo pieno, se la mia quotidianità diventasse più comoda. Ma rischierei per scoprirlo! Per adesso il futuro è rimandato a domani. Vivo mese per mese in un monolocale di 20mq che dopo quattro anni comincio a soffrire. A volte mi sento come un bambino costretto a vivere nella sua tana sull’albero, come se non mi fosse possibile lasciare andare l’adolescenza».
Il tempo delle scelte e dei desideri
«Avrei una vita quasi idilliaca sulla carta», riflette Giulia Ascani, consulente, «con un lavoro a Milano che posso fare da remoto a Perugia, dove vive il mio compagno. Eppure mi ritrovo a lottare con me stessa e i sensi di colpa, sentendo di aver rinunciato a una parte di me, quella più ambiziosa e indipendente, per un futuro di coppia che altrimenti non sarebbe possibile».
Per lei il “cosa” è chiaro: vuole allineare lavoro e vita privata, trasformando la sua professione in consulenza in qualcosa di più appagante dato che il lavoro che sta facendo non la convince più. È il “come” che le sfugge, ed è per questo che ha iniziato un percorso con una coach. Non è una questione di semplici incastri tra Milano, che è perfetta per il lavoro, e Perugia, che ha tutta un’altra vivibilità, ma di come reinventarsi senza perdersi.
Il peso delle scadenze esistenziali si accumula nell’era dell’instabilità. L’idea di fare un figlio si scontra con la fragilità economica: secondo un recente report di Save the Children del 2024, il 40 per cento delle donne under 35 in Italia rinuncia alla maternità per motivi economici, mentre il 65 per cento delle famiglie con figli segnala difficoltà nel conciliare lavoro e cura dei bambini. A questo si aggiunge un altro dato: il 70 per cento dei giovani under 30 dichiara di non sentirsi pronto per diventare genitore a causa dell’incertezza lavorativa e dell’impossibilità di accedere a un alloggio stabile. I progetti di maternità si misurano in metri quadri e avanzamenti di carriera, mentre il costo della vita continua a salire. Per alcuni è questione di “quando”, per altri di “se”.
«Qualche anno fa ho congelato gli ovuli – prosegue Giulia –. Devo dire che vedere le mie amiche affrontare la maternità mi ha fatto venire qualche dubbio in più rispetto a prima, quando ero certa e sicura al 100 per cento di volerli. Le riflessioni sulla maternità sono diventate più frequenti, soprattutto sul “dove”. Lui non ha intenzione di spostarsi a Milano, e comunque non avremmo un vero sostegno familiare o una rete di appoggio. In provincia, invece, avremmo più agevolazioni nella vita quotidiana. È un discorso complesso, e ogni giorno mi pongo nuove domande».
Anche per Vincenza Giglione, copywriter freelance, la scelta del “dove” è stata cruciale: «Far nascere un bambino a Catania invece che a Milano ha fatto la differenza. Qui non c’è il problema del posto all’asilo, ho una rete di supporto con i nonni. A Milano non avevo nessuna delle condizioni che poi hanno portato all’arrivo di Giuliano, non avevo una relazione stabile, né un lavoro e un tetto mio sulla testa. Non me l’ero neanche mai posta come possibilità».
Il tempo è uscito dai cardini, trascinando con sé una generazione che rimbalza tra gli stessi problemi: la ricerca di un lavoro che sappia tanto appagare quanto pagare, l’equilibrio tra vita privata e professionale, tra io e noi, tra desideri e necessità. I vecchi modelli non funzionano più, i nuovi si scrivono adattandosi.
© Riproduzione riservata