Ci sono tante ragioni per cui questo programma funziona così bene, al di là del gusto personale e della dieta televisiva di ognuno: le corna come collante sociale, la varietà linguistico-dialettale dei protagonisti, la capacità di immedesimarsi e un secondo dopo prendere le distanze dallo stesso concorrente. E poi un corollario di frasi immortali che diventano tormentoni, in un discorso impazzito in cui conta solo l’ultima parola
Nel 1977, il semiologo francese Roland Barthes pubblica Frammenti di un discorso amoroso. «Quello che viene proposto è un ritratto, ma questo ritratto non è psicologico, bensì strutturale. Esso presenta una collocazione della parola: la collocazione di qualcuno che parla dentro di sé, amorosamente, di fronte all’altro (l’oggetto amato), il quale invece non parla», spiega Barthes nell’introduzione a uno dei suoi testi più fortunati.
In ordine alfabetico, il semiologo raccoglie delle figure di innamoramento, delle parole che raccontano l’amore attraverso testi letterari, dal giovane Werther al Simposio. La verità, il pettegolezzo, l’abbraccio: i frammenti del discorso sono ottanta.
Da quando vanno in onda, ossia da più di vent’anni, i programmi di Maria De Filippi hanno prodotto un linguaggio che tutti hanno assorbito, anche chi non li guarda. Sappiamo cos’è un tronista, conosciamo il senso dell’espressione «aprire la busta», ci è capitato di leggere «Maria, io esco». Possiamo non aver visto neanche un minuto di Amici, ma è quasi impossibile non sapere chi siano Annalisa, Elodie ed Emma, per citare alcune delle concorrenti che hanno un posto fisso in cima alle classifiche italiane contemporanee.
Guilty pleasure
Di tutti i format che compongono la fabbrica dei sogni mariana, ce n’è uno che, negli ultimi anni, è diventato un cult, se per cult intendiamo il fatto che abbia abbondantemente squarciato il velo di Maya della televisione generalista per arrivare anche a solleticare la cattiva coscienza di chi giura di non aver mai messo neanche per sbaglio su Canale 5.
«La collocazione di qualcuno che parla dentro di sé, amorosamente, di fronte all’altro (l’oggetto amato), il quale invece non parla»: durante il falò di Temptation Island, il momento in cui i due innamorati o ex innamorati si confrontano dopo aver trascorso diversi giorni in un villaggio a farsi corteggiare da tentatori e tentatrici pagati appositamente per indurli in tentazione, appunto, ma senza liberarli dal male, c’è un momento in cui uno deve parlare e l’altro deve ascoltare, in silenzio.
Ci sono tante ragioni per cui questo programma funziona così bene, al di là del gusto personale e della dieta di ognuno, che può anche non includere contenuti così televisivamente ipercalorici.
La prima, nonché la più lampante, è che le corna sono un collante sociale e un espediente narrativo senza pari, sia che si tratti di Eyes Wide Shut che di Perfetti sconosciuti, la versione alto borghese di Temptation, dove al posto degli RVM sull’iPad ci sono i telefoni a tavola e al posto di Filippo Bisciglia c’è Marco Giallini.
Chiamiamola Schadenfreude, chiamiamola insaziabile curiosità o catarsi aristotelica, guardare delle persone che vivono un incubo, ossia quello di poter vedere con i propri occhi tutto ciò che la natura umana, per istinto di conservazione, dovrebbe nascondere, in questo Panopticon travestito da resort in Sardegna, è un’esperienza forte. Che la sua forza sia la repulsione o l’attrazione, sta a ciascuno di noi decidere.
Immedesimazione e distanziamento
Ma oltre alla materia di cui è fatto Temptation, giardino dell’Eden con alberi gonfi di mele, serpenti, perizomi, sigarette elettroniche e un unico grande giudizio, quello del pubblico, c’è la lingua che agisce.
Prima di tutto, c’è l’Italia delle province, e non solo quella della romanità o della milanesità equidistribuita nell’egemonia culturale del mezzo televisivo da ormai settant’anni. A Temptation ci sono l’abruzzese che esclama «freghete», i napoletani che affrontano qualsiasi discorso animato in dialetto, come se tutto il mondo fosse paese, o meglio paisà, i pugliesi, i veneti, i toscani.
C’è la varietà linguistica della penisola, che si interseca con la stratificazione sociale dei concorrenti, volutamente tenuta a bada dalla necessità del racconto: perché un altro elemento centrale, oltre all’immedesimazione catartica, è il distanziamento. Io non sarò mai come quella ragazza che non può andare a comprare il pane perché il fidanzato la tiene chiusa in casa, il mio fidanzato non sarà mai come quello che prende a pugni la bottiglietta dell’acqua perché ho spalmato la crema sulla schiena di un palestrato. Non è il Temptation Island in sé, ma il Temptation Island in me, potremmo dire.
E poi, ci sono le parole, i frammenti del discorso, i nomi, i nomignoli, le frasi immortali che diventano tormentoni e meme che sopravvivono anche alle stagioni successive, tramandati oralmente come gli antichi poemi.
Eterni ritornelli
I grandi classici del testo amoroso di Temptation, quelli che si rimbalzano di generazione in generazione e di programma in programma: «Mi fa sentire sbagliata», «Sono venuto qui per mettermi in gioco», «Mi merito di più», «Ha fatto cadere la maschera», e poi, l’intramontabile passepartout, «Io sono sempre me stesso», o «me stessa», se vogliamo declinarla in ferragnese.
Queste espressioni fungono da paradigma del sentimento in un contesto in cui la verbalizzazione emozionale è spesso un ostacolo non solo tra i soggetti coinvolti, ma anche per chi da fuori osserva. Ma andando più nello specifico, nel campo della creatività e del correlativo oggettivo, fuori dal frasario preimpostato, le scorse edizioni ci hanno regalato frammenti notevoli.
«Io dentro di me ho un macumba che vuole esplodere», citazione di un giovane concorrente che aveva adottato come nom de plume per le chat erotiche che frequentava l’emblematico "American Boy” – era della provincia di Salerno.
«Io ho la malattia delle donne», detto da Oronzo, concorrente del 2018, per spiegare il problema insormontabile dell’appetito sessuale, tenuto al guinzaglio nella gabbia della monogamia; problema ricorrente, se non totalizzante, di chi intraprende il «viaggio nei sentimenti».
E poi, ancora, «Bella patata sono io», urlato da Anna Pettinelli al suo ex fidanzato, dopo aver scoperto che l’epiteto intimo, scheggia impazzita del lessico amoroso, viene utilizzato anche per un’altra donna.
Nell’ultima stagione, che puntuale conferma il successo in termini di ascolti, la prima frase cult viene da Tony, un dj catanese che, come Oronzo, è affetto da quella strana patologia detta anche «le donne». Nel suo caso, la metafora si fa letteraria, proprio come in Barthes: «Avevo questo Mr Hyde che prendeva il sopravvento».
La doppia vita di Tony, che lascia di stucco la compagna Jenny, si configura così in termini stevensoniani, lasciando che sia il contesto inglese del diciannovesimo Secolo a legittimare la doppia vita del dj, costretto a vestire i panni di un pazzo quando cala la notte e la consolle si accende.
«Mi hanno hackerato il profilo», aggiunge poi per dare anche un tocco steampunk alla sua rivisitazione moderna del romanzo gotico, la colpa è della macchina, non dell’uomo. Ma si sa, come i carabinieri, i migliori girano sempre in coppia, e al fianco di Tony c’è l’amico Lino, detto anche, con dolci parole dalla sua compagna Alessia, «’o strunz’» – dal lessico è facile intuirne la provenienza.
Lino è un Cannavacciuolo che incontra Geolier, ma soprattutto è un inguaribile mascalzone. Non solo si lega alla tentatrice Maika, chiamata affettuosamente dalla sua fidanzata Alessia «Totò» per esaltarne i tratti decisi, ma ne corteggia anche un’altra, Gaietta, arrivando a comporre un quadrilatero in cui tutte le donne, anche quelle che lo conoscono da meno di una settimana, lo odiano.
La sua risposta a queste accuse di avere troppe «situazioni» – in inglese si è coniato il termine «situationship» proprio per descrivere l’incertezza della fase della conoscenza – è un piccolo capolavoro del testo amoroso: «Io mi sto vivendo le mie sensazioni, che ci posso fare se ho tre sensazioni». Sensazioni e situazioni, purtroppo, non sono comprese nella guida di Barthes.
L’ultima parola
«Con la prima scenata, il linguaggio inizia la sua lunga carriera di cosa tormentata e inutile. È il dialogo (il combattimento tra due attori) che ha corrotto la Tragedia, prima ancora che Socrate comparisse sulla scena», scrive Barthes alla voce «scenata». «Non esiste partner d’una scenata che non sogni di avere l’ultima parola», continua.
Il fine ultimo di Temptation, e del viaggio nei sentimenti, è arrivare al falò di confronto, dove la contesa verbale, la disputatio degli Scolastici, deve concludersi con un vincitore, chi ha l’ultima parola: «Chi è un eroe? Colui che è in grado di replicare per ultimo».
L’ultima parola di Werther fu il suicidio, unica vera interruzione della scenata. Nel caso dei nostri eroi di Temptation, non c’è bisogno di arrivare così lontano per diventare un eroe. Basta solo trovare una parola giusta, un frammento di discorso che schizza fuori dalla bolla del programma e arriva nell’iperuranio dei tormentoni, raggiungendo chiunque, anche chi di corna, falò e pinnettu proprio non vuole sapere nulla.
Quanto sopravvive il frammento di discorso impazzito fuori dal suo habitat, una volta esaurita la scia della cometa, è un altro discorso ancora.
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