Mi irrito sempre quando i commentatori politici usano le metafore calcistiche. Mi irrito perché non capisco. Sarebbe bello pensare che un riequilibrio di genere possa sanificare entrambi gli ambiti. Non succederà
L’altro giorno sono stato alla presentazione di un bel libretto che raccoglie gli sparsi scritti di Giovanni Raboni sul gioco del calcio. Come altri scrittori prima e dopo di lui (Saba, Sereni, Pasolini, Soriano, Gatto, Rushdie, Piperno), Raboni oscilla tra il piacere di sentirsi “come tutti” e il bisogno elitario di elaborare metafore che spieghino la sua passione, così apparentemente incongrua per un intellettuale.
Insiste sulle meraviglie dell’attesa, sull’occasione presa per la coda (la «zona Cesarini»), sulla sconfitta che è forse preferibile alla vittoria («trionfo della banalità, del cattivo gusto»), sul tempo dei novanta minuti come memento della «partita» esistenziale, fino all’affermazione scelta dai curatori a titolo del volumetto: Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita (Mimesis edizioni). Io, che tifoso della mia vita non sono stato mai, ero però colpito l’altro giorno da tutti quei signori non più giovanissimi che si commuovevano abbandonandosi beati alla regressione infantile.
Il rito iniziatico
Nei racconti degli intellettuali tifosi di calcio esiste una scena primaria, o un rito iniziatico, più o meno uguale per tutti: se stessi bambini accompagnati dal padre allo stadio, l’incanto di quella folla esultante e di quel prato verde, l’imprinting assorbito per sempre.
Mio padre mi portò una sola volta con sé allo stadio, ero molto piccolo (forse troppo) e non mi sono mai vergognato così tanto in vita mia: ogni volta che il Modena si spingeva in avanti con una bella azione, lui saltava e urlava sui gradini di cemento e io mi rannicchiavo mormorando in silenzio «questo non è il mio papà, io non c’entro, non sono suo figlio».
Da allora non ho mai più voluto vedere (e mai più ho visto) una partita di calcio. Avevo quattro anni, credo, al massimo cinque, mentre la scena primaria si svolge di solito col protagonista che è tra gli otto e i dieci anni; è quello che gli psicologi dell’infanzia chiamano il «periodo di latenza», quando la sessualità polimorfa del bambino si sospende e la libido rimane “dormiente” aspettando l’esplosione della pubertà.
Guardando l’altro giorno il sorriso nostalgico e pacificato di Beppe Severgnini e degli altri presentatori, ho pensato ecco perché riescono a esultare su undici bei ragazzi in calzoncini senza sentirsi minimamente omosessuali, perché il battesimo è avvenuto mentre in loro il sesso dormiva.
I medici mi hanno spiegato che per una anomalia io non ho potuto godere di quel periodo, la mia sessualità polimorfa non ha avuto interruzioni e da questo deriva la mia vera, patologica diversità: le mie regressioni infantili sono già folte di affanni adulti, e qualunque forma di esultanza mi riesce sospetta perché non arrivo a capirne la purezza.
Tra Europei ed elezioni
Il caso ha voluto che il pareggio dell’Italia con la Croazia, che le ha permesso di passare agli ottavi di finale negli Europei, coincidesse con lo spoglio delle schede per i ballottaggi delle amministrative. In tivù la festa degli elettori e degli eletti (soprattutto nelle città conquistate dal centro-sinistra) si è così sovrapposta al tripudio dei tifosi per il “miracolo” compiuto da Mattia Zaccagni, un goal all’incrocio dei pali durante i minuti di recupero (“zona Cesarini”).
Elly Schlein ha iniziato la conferenza stampa indetta al Nazareno per commentare i risultati del voto con un «grazie Zaccagni e forza azzurri» – ha sfruttato la coincidenza per instillare un’analogia tra la squadra della Nazionale e quella del centro-sinistra invitato a «fare squadra» e a non mollare mai: «Abbiamo sofferto ma non abbiamo mai smesso di crederci» valeva per entrambe le situazioni.
La metafora ha volato sulle ali dell’emozione e ha funzionato, doppia vittoria. Non contenta ha voluto proseguire la metafora calcistica ironizzando sugli avversari che «avendo perso la partita scappano con il pallone in mano» (alludeva al presidente del Senato e alla sua idea di rivedere il sistema del doppio turno).
Calcio e politica
Mi irrito sempre un poco quando i commentatori usano le metafore calcistiche per parlare di questa o quella situazione politica, mi irrito perché non capisco: che significa che il partito X “somiglia più all’Italia catenacciara che all’Olanda di Cruijff”? E come sarà il leader Y se di lui si lamenta che “fa il veneziano” perché “non fluidifica”? Sarà una maniera di parlare come il popolo, e il diverso ancora una volta sarò io.
Ma non sarà anche che tra il calcio e la politica (anzi, il “gioco” della politica) c’è un’omologia più profonda? Non per niente, ormai, si parla di “tifoserie” quando si analizzano i conflitti tra i sostenitori di un movimento e i loro avversari; l’essenza del tifoso è irrazionale, sentimentale, euforica con punte di rabbia e di malinconia; il tifo procura dolori e gioie secondo i momenti e si “tiene” per la propria squadra qualunque cosa le accada.
Tutti ormai vedono che il calcio si è trasformato in modo irreversibile, è diventato un’impresa economica colossale, l’acquisizione di ragazzini talentuosi (soprattutto dal Terzo mondo) è al limite dello sfruttamento, le curve sono serbatoi di violenza primordiale; ma il tifoso trova mille autogiustificazioni per maledire il mister, o un giocatore che ha tradito, o lo sponsor troppo avaro; non guarda al sistema ma pontifica di tecnica e si entusiasma lo stesso.
«Per i generali della televisione di Stato», scrive Raboni in uno dei suoi articoli, «il campionato di calcio deve continuare a essere una cosa soltanto: la favola bella che ieri m’illuse, che oggi t’illude ecc.; uno smisurato fumettone che significa solo se stesso e i propri elementari meccanismi simbolici: vittoria, pareggio, sconfitta, promozione, retrocessione».
La «favola bella»
Assomiglia a molti dibattiti televisivi che accompagnano il dopo-voto: “A livello nazionale non abbiamo vinto, ma abbiamo pareggiato in tutto il Sud e abbiamo ottenuto qualche bella vittoria in zone locali significative”. Che la politica sia espressione della pòlis è per l’appunto la «favola bella» di dannunziana memoria; ormai i molti che non vanno a votare pensano alla democrazia come a uno «smisurato fumettone che significa solo se stesso».
I politici che usano le metafore calcistiche sono la spia semiotica del fatto che calcio e politica stanno subendo il medesimo processo di involuzione e di incapacità di guardarsi criticamente “da fuori”.
Un tempo si diceva che alle donne il calcio non interessava, e un luogo comune voleva che non conoscessero le regole del fuorigioco. Da tempo non è più così, parecchie donne sono tifose e le squadre italiane di calcio femminile stanno ottenendo buoni risultati.
Ma la scena primaria delle ragazze allo stadio ha presumibilmente caratteri psicologici meno patriarcali, la loro regressione infantile la immagino meno ingenua; nelle curve violente le donne sono pochissime, come non mi pare di aver visto donne tra i parlamentari che si sono scagliati contro il pentastellato reo di aver portato in aula una bandiera tricolore.
Sarebbe bello pensare che un riequilibrio di genere possa sanificare sia il calcio che la politica; purtroppo ho l’impressione che la progressiva insensatezza che ha colpito entrambi gli ambiti di comportamento (con la conseguente trasformazione della passione in tifoseria) sia legata a fattori sistemici che non dipendono tanto dal genere quanto dall’economia, dalla geopolitica e dalla deriva tecnocratica.
Il Potere talvolta riesce nell’acrobatico gioco di prestigio di far perdere peso e ruolo a quelle istituzioni nelle quali gli esclusi fino a quel momento (poveri, donne, stranieri) hanno faticosamente conquistato uno spazio e una presenza. “Intersezionalità” è una parola bella ma difficile da trasformare in azione concreta.
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