La figurina di Tete tornò allora sotto i nostri occhi. Era venuta senza trucco, le scarpe basse, portava un top scuro che si intravedeva da un giubbetto di jeans sbiadito. Avanzava nelle immagini con un passo incerto dal retro della scena, sospinta dallo stimolo di Kick, la conduttrice che aveva avuto buona parte nel successo dello show.

Tete portava a tracolla una chitarra acustica più grande di lei e l’apparecchio ai denti. Era la prima cosa che avevo notato. Pensai che potesse essere un segno di grande personalità e di sicurezza, oppure una totale incoscienza per le conseguenze di una bocca ferrata sul timbro della voce. Al tavolo avevamo a quel punto incrociato gli sguardi, senza dirci niente, in fondo Malika Ayane era salita così sul palco di Sanremo.

Le domandammo del suo nome, rispose che Tete voleva dir Teresa, era il modo in cui lo pronunciava a casa da bambina.

«Di Teresa», aggiunse poi, «in Italia bastava la De Sio».

Avevamo riso, ne fu spiazzata, non credeva di aver fatto una battuta. Arrossì come si può fare solo a sedici anni. Nel rivedere la scena, Scalza si stava sentendo sotto tortura.

«Da dove vieni?».

«Da Ullo, nella Val Camonica, non so se conoscete».

«Altro che, la conosco bene», intervenni, «io sono bresciamasco». Quando dico così, s’offendono i bresciani perché disconosco il posto dove sono nato e s’offendono i bergamaschi che mi sentono uno di loro da quando mi son trasferito a viver là, in provincia.

«Sì, lo so dove abita», aveva risposto. «Vado a scuola là vicino». Solo dalla registrazione mi accorsi che mi aveva dato del lei e che in quel punto aveva abbassato lo sguardo.

«E cosa fai di bello a Ullo?» le avevo chiesto ancora.

«Di bello a Ullo?» mi disse. «Di bello a Ullo c’è il wi-fi».

Quando era ragazza la mamma, per scappare dal paese dovevi andartene, dovevi mettere le scarpe e muoverti, lasciare le venti vacche che avevi, infilare la roba in una borsa e farla finita con le escursioni, le sciate, gli scioglilingua, tutte le risate di chi cantava in cortile qualche filastrocca. La fatica di svellere la radice dava in cambio un sollievo, la liberazione di lasciarsi alle spalle il borgo dove ci si conosceva tutti, mentre tu desideravi solo di smarrirti, essere un puntino ignoto anziché sentirsi chiedere quand’è che sposi, quand’è che farai un figlio, e ogni cosa giusta quando, quando. Ma chi ci riusciva, davvero in poche: quante ragazze potevano darsi il piacere di essere se stesse, andarsene e diventar qualcuna anziché restare e accettar qualcosa?

Tete poteva invece reggere la velocità alla quale si muove il mondo restando dentro le sue quattro pareti, uno spazio insieme immane e trascurabile, dove farsi domande su come la Terra troverà le risorse per sopravvivere, ma dove non esistono risposte su come troverai le tue. A sedici anni poteva chiedersi in quale modo vivremo sul pianeta quando saremo diventati dieci miliardi di persone, se scoppierà mai la terza guerra mondiale, se questa cosa che senti esplodere dentro è invece la tua, di guerra, più vicina, più terribile.

A sedici anni poteva chiedersi come si fa a piacere, come si impara a stare in equilibrio portando un peso dentro, rimanendo stabile e risoluta su tutto il resto, sulle battaglie giuste per il mondo; come si fa a tenere insieme la certezza di poter rivoltare ogni cosa su Change.org e la paura di non riuscire a cambiar niente di sé, quando ancora non sai se il tuo lavoro futuro è stato già inventato, se i mille euro che ti daranno sono una conquista o se invece ti stanno fregando.

Era la prima volta che tornavamo a guardare quel provino, le immagini erano grezze, non c’era stato nessun lavoro di post-produzione né di montaggio. Nessuno ci avrebbe mai più messo mano e questo rendeva ancora più livida e allucinata la visione che l’ispettrice aveva imposto. Non avevamo avuto né la prontezza né la forza per sottrarci. «Perché sei qua?» fu la domanda che uno di noi dal tavolo aveva fatto a Tete.

«Allora. Prima cosa son venuta per una persona, ma ho giurato che non ve lo avrei detto, seconda cosa boh, forse voglio fare musica perché quando canto non mi ricordo chi sono».

Una volta ancora al tavolo ci guardammo.

«Che pezzo porti?».

«Ciao amore, ciao, di Luigi Tenco. Con un mio arrangiamento. Cioè. Non è proprio mio».

«Ah però», balzò Jarno. «Come mai una sedicenne canta Tenco?».

«Tu lo sai che questo pezzo…» avevo provato ad aggiungere io, ma non mi aveva fatto finire.

«Sì, lo so», rispose, «so tutto di Tenco». «Allora vai, comincia, in bocca al lupo», si fece risoluta Scalza.

«Viva il lupo», aveva risposto Tete, e come succedeva ogni volta che qualche concorrente pronunciava quelle tre parole, la scenografia si accese lampeggiando sulle lettere VIL. Scorse con le dita lungo il manico in un arpeggio lento. La chitarra non era accordata benissimo, Scalza si era lasciata scappare una smorfia, ma Tete accennò un ràrarà ra-rà e le bastarono pochi secondi, saranno stati in tutto due. Jarno chiuse gli occhi, si era messo a dondolare. Quando lei attaccò con le parole, con la solita strada bianca come il sale, con il grano da crescere e con i campi da arare, scoprimmo che non c’era più niente del contrasto tra la marcetta originale e il tono enigmatico di Tenco. Il pezzo aveva preso una solennità mai sentita, aveva tenebre perfino più marcate.

La voce di Tete era esatta come un calcolo alla Nasa, era sottilissima. Scalza cambiò faccia, si voltò verso Jarno incredula, lui aprì gli occhi e subito dopo un sorriso. Tete andava avanti senza una sola incertezza, cantava senza incrociare i nostri sguardi e teneva il suo nel vuoto, assorta, il capo piegato, ogni tanto stringeva le palpebre, come dopo venti secondi fui costretto a fare anch’io, per non crollare.

Mi toccavo i capelli nervosamente – lo stavo scoprendo nel riguardarmi – mi agitavo sperando nessuno si accorgesse dell’abisso in cui mi aveva gettato questa ragazzina che interpretava l’ultimo pezzo mai cantato da Tenco in vita sua, e con un’aria più fatale. Diceva che si vive o si muore, cantava del giorno giusto per dire basta e andare via, andare via lontano, cercare un altro mondo, dire addio al cortile, andarsene sognando, Tete cantava di non saper far niente in un mondo che sa tutto, e lo faceva con la forza di questa sua presenza improbabile, stortignaccola sul palco, tutto il contrario della precisione delle note. Pensai che stesse mettendo un abito nuovo di inadeguatezza su parole vecchie di cinquant’anni. Aveva un mondo dentro e sapeva raccontarlo.

Sbuffai, mi passai un dito lungo le borse sotto gli occhi e quando il pezzo finì con un accordo in settima aumentata, risentimmo alla console il silenzio che ricordavamo di aver vissuto. La barra sotto la registrazione lo misurò in otto secondi. In studio ero stato il primo a spezzarlo. Avevo balbettato, fermandomi due volte: «Io penso che tu sia un grande talento». Tete non aveva risposto niente, né grazie, nulla, aveva abbassato di nuovo lo sguardo, mentre dal tavolo Jarno e Scalza si erano alzati a battere le mani. Lei allora aveva cominciato a singhiozzare.

«Ma chi sei, da dove vieni», aveva mormorato Jarno, e Tete non aveva capito il senso.

«Da Ullo», ripeté, «ve l’ho già detto». «Brava, questa ragazza», bisbigliò l’ispettrice, mentre nella registrazione stava arrivando quel punto in cui non so ancora cosa mi avesse preso. Scalza e Jarno l’avevano promossa, dicendo di non aver mai sentito una versione così, che era stata pazzesca, aveva spaccato, tutto il frasario di noi giudici. Ma per andare avanti le servivano tre voti su tre, l’unanimità. Le tre lettere di VIL.

Scalza disse: «Io ti do subito una V. Sei stata Vera». E la V sullo sfondo diventò verde.

«Allora io ti do la I, sei stata Insospettabile», aggiunse Jarno, accendendo una seconda luce.

Io esitavo. Ero rimasto in silenzio a rimuginare, l’aria si era fatta tesa, credo che Scalza avesse intuito tutto sin dall’inizio, mentre la regia inquadrava la L ancora spenta. Si aspettavano che trovassi Tete Luminosa, o Limpida. Dopo tanti anni gli aggettivi erano diventati sempre gli stessi.

Jarno sollecitava, «andiamo, cosa diavolo ci pensi», ma io me ne stavo zitto, avevo smesso di ragionare sulla voce, consideravo altro.

«Io penso che tu sia un grande talento», ripresi il mio giudizio, «ma non sono sicuro che tu abbia la forza per stare dentro questo gioco».

Scalza non ribatté, era pronta. Jarno no, Jarno era spiazzato. «Ma cosa stai dicendo? Non ci posso credere».

«Ho paura che non sia pronta», lo interruppi guardandolo negli occhi. Tete si stava già ricomponendo.

«Per stare su questo palco», continuai, «non basta la voce, non basta un bellissimo arrangiamento, serve una solidità che non lo so. Ho paura che in questo momento ti faremmo del male».

Il count-down della regia mi spinse a decidere. «Mi spiace. Devo dirti di no».

L’ispettrice schiacciò a questo punto il tasto che fermava le immagini.

«Era davvero brava», ripeté e sentimmo nelle cuffie il nervosismo delle sue unghie che grattavano la stoffa della camicetta. Solo due domande, premise, e fu molto delicata nel non fissarmi.

«La ragazza è morta due giorni dopo il mercoledì che era stata qua da voi. Era su un monopattino. È stata travolta da un treno a un passaggio a livello incustodito. Sappiamo che aveva le cuffie e la musica ad alto volume». Poi arrivò un colpo di pugnale. «Ma non siamo ancora sicuri che sia stato un incidente. Potrebbe essersi buttata».


da Viva il lupo, Sellerio, 2024

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