C’è una domanda che mi tormenta nel caldo di questa estate. Sto vivendo una brat summer? Ma soprattutto, ho capito cos’è la brat summer? Me lo chiedo da mesi, dalla fine della primavera del 2024, per la precisione, ossia da quando Charli xcx ha pubblicato il suo sesto album in studio dal titolo brat, dando vita a un trend che, per para-citare gli Offlaga Disco Pax, è come l’universo: in espansione. Tanti altri quesiti sorgono spontanei dopo così poche righe di testo per chi a questo punto dell’anno non ha idea di chi sia Charli xcx e non ha mai sentito la parola «brat», una condizione che, con dovuta misura, potrei anche invidiare. Soprattutto nell’era della gnoseologia iper-soggettiva: se non conosco qualcosa, quel qualcosa non esiste, e se quel qualcosa non tocca il mio algoritmo, probabilmente non la incontrerò mai. È la diretta conseguenza delle bolle di filtraggio, delle camere d’eco, dei gruppi Telegram, di Twitter con le tendenze «per te». È il ridimensionamento dei grandi fenomeni di cultura pop massificati dai mezzi di comunicazione verticali, nonché l’epoca del ciascuno col suo schermo e con il suo contenuto. Khaby Lame avrà pure centosessantatre milioni di follower su TikTok, eppure mio padre non ha idea di chi sia. Fino a un certo punto, sembrava anche il destino di brat, quello di rimanere nella sua area di consumo, ma le cose sono andate diversamente. E quindi, tornando al principio, cos’è la brat summer e perché ora ne parla anche il Tg1?

Partiamo dalle basi. Charli xcx è la mente, la voce e l’immagine su cui si fonda la brat summer, un fenomeno che, secondo autorevoli riviste di musica come Pitchfork, è già morto, durando appena ottanta giorni, quelli che sono serviti a far sì che il mondo dei media mainstream – o i boomer, che dir si voglia – se ne appropriasse, bucando la filter bubble che proteggeva il mood estivo color verde mela. Ma procediamo con ordine: Charli xcx, al secolo Charlotte Emma Aitchison, è la quintessenza dell’estetica millennial, a partire dal nome d’arte, scelto in quanto nickname che utilizzava su MSN Messenger. Per i non-millennial che leggono, MSN Messenger è stato il primo vero spartiacque tra un mondo senza social e un mondo fatto di chat, trilli, bot di nome Doretta e blog dentro cui gli adolescenti dei primi anni Zero hanno sguazzato, aprendo la strada a Facebook e a tutto ciò che è venuto dopo.

Nata a Cambridge nel 1992, comincia a diffondere la sua musica su MySpace, altro baluardo della cultura digitale della GenY: non passa molto tempo prima che diventi la colonna portante dell’hyperpop – sottogenere del pop e dell’elettronica diffuso perlopiù su SoundCloud – incoronata direttamente dalla rivista simbolo della generazione avocado, American Apparel e Harry Potter, ossia VICE. In Italia, il suo non è un nome particolarmente evocativo per il pubblico generalista, sia per quanto riguarda le classifiche che per la popolarità del personaggio, a differenza del resto del mondo, dove invece ha un posto nell’industria musicale di tutto rispetto. Scrive la colonna sonora del film campione d’incassi Colpa delle stelle, collabora con artisti come i BTS, Selena Gomez, Lorde, Rita Ora, David Guetta, Troye Sivan, apre i concerti dei Coldplay e di Taylor Swift, è tra gli artisti presenti nella soundtrack di Barbie. Il vero salto di qualità, quello che l’ha resa un argomento di conversazione a livello globale, arriva però con brat. E qui entriamo nel vivo della faccenda.

È importante sapere che brat è un titolo, certo, ma anche una parola ricca di significati che si presta a molteplici interpretazioni. Dal Cambridge Dictionary: «a child who behaves badly or one you do not like», un bambino capriccioso, viziato, monello. Per estensione, una ragazza cattivella che si comporta come una mocciosa, smorfiosa, una di quelle che, per citare l’antico precetto, vanno dappertutto, a differenza delle brave che invece vanno solo nel noioso paradiso. Dunque, un passo decisivo per capire l’essenza della brat summer, è comprendere cosa porta con sé questo termine che, risemantizzato dal connubio estetico di musica e immagine, converte i suoi tratti negativi in connotati positivi, per quella sempreverde – verde, il colore di brat, appunto – regola del bello e dannato, del Rebel Without a Cause che rende affascinanti e attraenti i Lucignoli e non i Pinocchi.

La copertina di brat, un quadrato verde acido con una scritta volutamente semplice in caratteri Arial, quasi sciatta per la sua essenzialità, conferma la sensazione di noncuranza e coolness che questo progetto vuole esprimere. Come a dire, siamo troppo impegnati a essere fighi per poterci mettere pure a pensare a un artwork decente. Chiaramente, dietro questa idea grafica c’è invece il lavoro di un prestigioso studio di New York lungo cinque mesi, quelli necessari per selezionare la giusta gradazione di verde e il font che sarebbero diventati la base di un meme, massimo riconoscimento in termini di rilevanza internettiana.

Le tracce del disco sono quindici, alcune come Apple sono diventate un trend su TikTok con tanto di coreografia annessa, i testi citano film di culto degli anni zero – Mean Girls, Spring Breakers – e fanno riferimenti all’essere donna trentenne nel mondo di oggi, tra allusioni dirette alla cocaina e riflessioni sul diventare madre. La musica è sexy, ammiccante, pop, elettronica, festaiola e intimista, un po’ Daft Punk un po’ Lady Gaga, un po’ Boiler Room un po’ rave, luoghi di formazione di Charli xcx. È il sottofondo alla cultura contemporanea del citazionismo e del ripescaggio postmoderno anche di cose avvenute pochissimi anni fa, in un turbinio di contenuti in cui l’attenzione si perde in un attimo e che, per rimanere alta, necessita di un costante richiamo. Incalzante, appiccicoso e smorfioso, proprio come un bambino che fa i capricci e che vuole tutte le attenzioni su di sé.

E poi, c’è la Weltanschauung di brat. Se l’estate del 2023 è stata l’estate del rosa, di Barbie e di «he’s just Ken», il 2024 è l’anno della ragazza che alle Barbie staccava la testa e che piuttosto giocava con le Bratz, versione anni Zero della bambola con tratti esagerati, occhi enormi, trucco pesante e zeppe. Nella cultura pop contemporanea, non basta avere un film, una canzone o un nome per emergere nell’oceano di proposte con cui si nutrono piattaforme e feed. Serve la sinestesia, l’opera d’arte totale, audio-video-manifesto, serve il moodboard da usare per i social, il colore con cui scegliere le emoji, il modo di interpretare il mondo che un prodotto, una volta diventato virale, ti può dare.

E dunque, senza nessun preavviso, scopriamo che Kamala Harris è brat. Non solo perché così ha decretato Charli xcx, rilanciata da Harris, nei giorni in cui la candidata dei democratici americani spopolava su internet per la sua metafora evocativa pescata da un vecchio monologo; «Do you think you just fell out of a coconut tree? You exist in the context of all in which you live and what came before you» è la frase tormentone, al punto da far diventare parte della campagna elettorale non solo brat ma anche le emoji di una noce di cocco e di una palma, per completare il quadro iconografico. Kamala è brat perché Trump non è brat, e così si può andare avanti all’infinito, nel gioco in cui non ci sono regole se non una sola, ossia quella di aver compreso cosa voglia dire brat.

E non c’è niente di più coinvolgente su internet dell’idiosincrasia linguistica che diventa meme, trend, thread, copypasta, challenge, o qualsiasi altro espediente emulativo di massa. Più un concetto è difficile da spiegare, più è un inside joke, più la grande comunità digitale nutre il flusso della viralità che, come nel caso di brat, arriva a esondare fino alle rive calme e con un solo strato di senso – o layer, come si dice sul web – dei telegiornali e dell’informazione mainstream.

Dunque, chi è e chi non è brat? Charlotte Brontë è brat, Katy Perry non è brat. Julia Fox è brat, Kanye West non è brat. In una mia personale tabella di bratitudine, direi che Vincenzo De Luca è brat, Chiara Ferragni non è brat, Federica Sciarelli è brat, Pino Insegno non è brat. Chloë Sevigny è brat, Taylor Swift non è brat, nonostante Charli xcx abbia istruito a dovere i suoi fan su questo tema: supportarsi tra donne è brat, mettersi in competizione l’una contro l’altra no. E per quanto acido sia il colore del trend, nessuna ragazzaccia brat, dispettosa e riottosa, menefreghista e indipendente, vuole far sì che questo movimento diventi una scusa per spargere odio, trasformando il verde mela in verde invidia.

E poi, non bisogna dimenticare che brat è anche cultura del clubbing, è ballare sotto cassa, è droga sintetica, è ritrovarsi in bagno davanti allo specchio con delle sconosciute e complimentarsi per il look. Occhiali neri a mascherina, trucco pesante, gonne corte, intimo colorato – «you wanna guess the color of my underwear?» dice il primo verso di Guess, anche in versione remix con Billie Eilish.

Insomma, la bratness o ce l’hai o non ce l’hai, e qui torniamo alla domanda iniziale. Come faccio a sapere, in quanto donna che condivide la data di nascita con questa artista che con un colore e una parola di quattro lettere ha creato un trend globale, che livello segnerà il brat-metro alla fine della mia estate? Mi sto impegnando abbastanza per far sì che questa sia per me una brat summer?

Guardare Techetechetè mangiando ghiaccioli alla menta davanti al ventilatore è brat? Rispondere alle mail di lavoro in pieno agosto è brat? Forse la risposta a questo interrogativo estivo ha qualcosa di parmenideo. Il brat è, e non può non essere brat, il non-brat non è brat e non può essere brat. E forse, nel momento in cui ci si comincia a chiedere se si è brat, si smette di essere brat, sempre se lo si è mai stati.

© Riproduzione riservata