«Vorrei che tutti avessero dei genitori come i miei: mi hanno sempre permesso di scegliere, anche da giovane. Non mi hanno mai messo sotto pressione. Auguro a tutti i bambini di avere la libertà che ho avuto io». È la dedica che Jannik Sinner fece dopo la sua prima grande vittoria. Se ne è parlato tanto ma cosa significhino esattamente queste parole ce lo spiega ora Francesca Vitali, docente all’Università di Verona, past president dell'Associazione Italiana Psicologia dello Sport e dell’esercizio, attualmente psicologa della squadra azzurra femminile di rugby e attivista per Assist (associazione nazionale atlete).

Nel paradosso tutto italiano che vede convivere un’élite sportiva eccellente con il terrificante dato OCSE del 94,5 per cento di sedentarietà dei bambini, la difficoltà di dare le giuste opportunità grava sempre più sulle spalle delle famiglie: a loro spetta l’onere di sopperire al vuoto formativo scolastico in ambito motorio e orientarsi, autonomamente, tra club tendenzialmente aderenti al modello agonistico.

Tuttavia, è importante sapere che la strada giusta è solo una: le scelte volte al miglior sviluppo psicofisico dei figli sono anche le stesse che possono permettere loro di scoprire, far crescere il talento e intraprendere una carriera agonistica, se lo vorranno.

Professoressa Vitali, direi di non dare nulla per scontato: ci spiega il significato della parola sport?

Ha molte definizioni. Semplificando possiamo fare riferimento a un’accezione politica secondo cui sono sport tutte le attività organizzate o meno, finalizzate al benessere e alla ricerca della prestazione (come evidenzia anche la recente modifica dell'articolo 33 della Costituzione).

Per la scienza invece lo sport è una forma di attività fisica che ha tre precise caratteristiche: un regolamento, la ricerca della prestazione e la competizione. Parlare di sport non competitivo è, dunque, un ossimoro. Se c’è competizione è sport altrimenti è attività motoria, come accade ad esempio in contesto scolastico: si gioca a pallavolo, pallacanestro, si fa la corsa campestre ecc. ma non si fanno classifiche né campionati.

A che età si dovrebbe iniziare l’attività motoria?

Prima si comincia meglio è. L’acquaticità neonatale, ad esempio, è una pratica estremamente benefica e sempre più diffusa: consiste in esperienze di movimento e gioco in acqua che i bimbi, già a partire dal secondo mese di vita, possono fare insieme ai genitori. In seguito, quando i bambini imparano a camminare devono essere stimolati a sviluppare le capacità (equilibrio, forza, resistenza, ecc.) e tutte le attività sono utili (strisciare, rotolare, arrampicare, ecc.): rappresentano il patrimonio per la costruzione di future abilità motorie e sono fondamentali anche per lo sviluppo cognitivo, emozionale e sociale.

Le famiglie devono cimentarsi nel difficile lavoro, perché proprio così lo si può definire, di ricercare proposte motorie totalmente ludiche vocate alla piacevolezza e, possibilmente, alla condivisione dell’esperienza tra genitori e figli; ciò induce serenità al bambino e fortifica il legame.

Quando invece è corretto dare il via a un’attività sportiva dunque organizzata, prestativa e competitiva?

Ormai si inizia intorno ai 6 anni. In molti giochi di squadra esistono addirittura tornei per under 6 (U6). Questo avviamento precoce, di per sé, non è una criticità. È, infatti, positivo se nella fascia d’età che corrisponde al ciclo della scuola primaria (6-10 anni) viene proposta un’attività che in inglese si chiama sampling ovvero multidisciplinare, giocosa, multilaterale, varia e variabile (tipica ad esempio delle polisportive). È un modello che si oppone nettamente alla specializzazione precoce, scelta purtroppo dominante in molti club e che porta con sé due gravi rischi: alta incidenza di infortuni da sovraccarico e l’abbandono come conseguenza del burnout psicofisico dovuto a eccessive pressioni, perdita di motivazioni e di percezione di competenza.

Quali sono i benefici psicofisici dell’attività impostata sul sampling?

Lo sviluppo motorio stimola quello cognitivo, emozionale, sociale. Soprattutto tra i 6 e i 10 anni è il movimento che influenza in modo netto e significativo lo sviluppo del sistema nervoso centrale. Le neuroscienze dicono che più attività fanno i bambini (soprattutto se aerobica e per almeno un’ora al giorno) maggiore è la stimolazione del cervello e in particolare del lobo frontale e del corpo calloso: aumenta l’apporto di nutrienti, migliorano le sinapsi, le capacità logico matematiche e tutte le funzioni esecutive (attenzione, apprendimento, memoria, decisione, inibizione…).

Quando fanno sport i bambini diventano più competenti anche emotivamente: riconoscono e gestiscono meglio le loro emozioni e sono in grado di parlarne con gli adulti di riferimento (genitori, educatori sportivi, insegnanti). Le capacità sociali e di relazione come la comunicazione, l’empatia, la consapevolezza sono positivamente stimolate.

In che modo i genitori possono sostenere la motivazione?

I genitori hanno un grande ruolo nel mantenere alta la motivazione legandola principalmente al divertimento e al sentirsi capaci. I bambini più fortunati sono i figli di ex atleti o di coppie con livello di scolarità più elevato e con disponibilità economiche maggiori. L’intersezione di questi fattori ci dice quali sono i giovani più favoriti. La cosa migliore che un genitore può fare è essere esempio positivo, ispirazione e guida alla conquista dell’autonomia. Il dilemma educativo tra sconfitta e vittoria va interpretato come un sano adattamento alla vita, alla realtà.

Il leitmotiv è fare il proprio meglio e non meglio degli altri, senza mettere pressioni che poi si trasformano in aspettative che i bambini sentono di dover soddisfare. Alla base ci deve essere sempre l’importanza dello stile di vita attivo, perché finiti gli anni del sampling, la competizione potrebbe essere un discrimine.

Siamo un paese di bambini sedentari ma abbiamo anche un alto abbandono precoce tra gli agonisti. Gli sport più correlati con l’abbandono sono le discipline individuali e che si svolgono al chiuso. L’amicizia tra compagni di squadra così come il contatto con la natura negli sport outdoor sostengono moltissimo la motivazione alla pratica.

E il rapporto con allenatori?

Dovrebbe riproporre quello con gli insegnanti. È importante comunicare con loro periodicamente per confrontarsi e allinearsi, condividendo un patto educativo, esattamente come si fa a scuola.

L’errore più grande?

Togliere lo sport per punire è una scelta altamente diseducativa. Innanzitutto, la punizione fa riferimento a un rapporto transazionale mentre, a partire dalla teoria montessoriana, bisognerebbe indurre scelte autonome (entro limiti codificati). Poi si tolgono occasioni di movimento che, a questo punto dovrebbe essere chiaro, è prima di tutto un bisogno essenziale.

Si fa passare il concetto che lo sport sia un capriccio. Inoltre, se la disciplina praticata è di squadra, si sottovaluta anche la responsabilità sociale nei confronti dei compagni e dell’allenatore. Insomma, un autogol. Essere madre e padre è difficile, anche nello sport. E forse lo spirito giusto è quello delle parole di Madre Teresa: «I genitori devono essere affidabili, non perfetti. I figli devono essere felici, non farci felici». 

© Riproduzione riservata