La notizia, affiorata da un archivio dell’entroterra argentino, è giunta a Buenos Aires lentamente, come una pergamena portata da un messaggero a cavallo. A renderla attendibile, il sigillo di ceralacca dell’Accademia argentina di genealogia e araldica: il primo Maradona della Storia, capostipite della plebea stirpe da cui un giorno discese Diego Armando, sarebbe stato uno schiavo liberto della provincia di San Juan, nell’arida regione centro occidentale del Cuyo. Dove un paio di secoli fa, un esercito di indigeni, meticci, mulatti e neri, la scoria della Conquista dell’America, veniva educato al mestiere delle armi con l’obiettivo di attraversare le Ande, combattere le truppe spagnole di stanza in Cile e Perù, liberare per sempre le Province Unite del Plata dalla dominazione coloniale. La ricompensa, per chi di loro fosse tornato intero, era un posto da uomo libero in quella che a Buenos Aires, dalla Rivoluzione del 1810, chiamavano Patria.

Patria e Libertà

Uno dei problemi della neonata Repubblica argentina, però, è che quella Libertad! Libertad! Libertad!, tre volte sancita dall’inno nazionale del 1812, ha un significato ben diverso a seconda di chi la reclama. Se per l’élite rioplatense essere liberi significa emanciparsi da una Spagna avida e in decadenza, troppo occupata a combattere Napoleone per proteggere le colonie da inglesi e portoghesi, per gli schiavi africani e afro-discendenti di Baires (un terzo della popolazione), la libertà è più che altro un attestato che si compra dopo anni di servitù.

Una manumissio che, in prossimità delle Guerre d’indipendenza, si comincia a promettere in cambio di «servizi eroici e straordinari»: un servizio militare più o meno volontario, decisivo per respingere l’invasione inglese del 1807, capitolo fondativo dell’epica nazionale e radice del sentimento antibritannico poi concentrato sulle Malvinas. Da allora, vestiti con giubbe di panno rosso e riuniti nel reggimento dei Pardos e Morenos, i neri “puri” e i “mulatti” di madre nera e padre bianco vengono progressivamente elevati al rango di soldati comuni, insieme agli indigeni e ai meticci di madre India del cosidddetto Battaglione delle Caste. Erano anni in cui si parlava così. Per poter veramente cacciare gli spagnoli dal continente, la nazione che nel 1816 si dichiara libera e indipendente ha bisogno di un esercito disciplinato e professionale. Uomini che le famiglie delle classi patrizie non intendono sacrificare.

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Il primo Maradona? Schiavo, violinista e soldato

«I ricchi e i terratenenti si negano a lottare, non vogliono mandare in battaglia i loro figli, dicono che non gli importa di continuare a essere una colonia. Un giorno si saprà che questa patria fu liberata dai poveri e dai figli dei poveri, dai nostri indios e dai negri, che non saranno più schiavi» scrive il generale argentino José de San Martin, formato nell’esercito spagnolo ma segretamente affiliato alla loggia massonica Lautaro, creata nel 1812 per ordire l’indipendenza dell’America spagnola: uno dei Libertadores a cui è intitolata la Coppa dei Campioni del Sudamerica, per intenderci. A sua volta è figlio illegittimo di una serva indigena di Yapeyú, in provincia di Corrientes, origine bastarda a lungo silenziata dalla storia ufficiale, l’enigmatico San Martin è lo stratega che nel 1817 conduce il leggendario esercito delle Ande attraverso la Cordigliera, avviando la definitiva liberazione di Argentina, Cile e Perù. Cinquemila uomini, arruolati per lo più tra gli esclusi della società coloniale, concentrati e addestrati nello sperduto accampamento militare del Plumerillo, a metà strada tra le città di Mendoza e San Juan.

Tra gli schiavi comprati o confiscati ai signori che non se ne vogliono privare, c’è anche Luiz Maradona, schiavo di don José Ignacio Maradona, il padrone da cui prende il cognome come in uso all’epoca, e per il quale (squisito dettaglio) suona il violino. O almeno questo è quanto si deduce dalla voce “violinisto” con cui Guillermo Collado Madcur, professore di Scienze della comunicazione dell’Università nazionale di San Juan, lo trova registrato nei documenti custoditi presso l’Archivio generale della provincia

«Quella del “violinisto” è una denominazione caratteristica di queste zone, tutt’oggi utilizzata per indicare chi suona folklore» ci spiega in videochiamata. «E a San Juan esistevano almeno due famiglie che avevano orchestre musicali formate da schiavi». Discendente di una famiglia druso-libanese, emigrata dalla cordigliera del monte Libano a quella delle Ande nel primo dopoguerra, Guillermo è nato a San Juan nel 1963. Nel 2004, lo studio delle ramificazioni delle prime antiche casate della zona, passione coltivata fin da bambino, lo porta a fondare il Centro di Genealogía e araldica di San Juan, di cui oggi è presidente.

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Nobili Sospetti

Nel novembre del 2020, con la morte di Maradona, un pretenzioso “coccodrillo” accademico, firmato dal professor Roberto Elissalde da Buenos Aires, afferma che Diego Armando sarebbe un diretto discendente dei Fernandez-Maradona di San Juan, nobile famiglia di origine galiziana incrociata alla fine del 1700 con la casata patrizia dei Jufré, i fondatori della città. Quasi a volerne “sbiancare” le origini, il Diego nero e plebeo di Villa Fiorito risultava all’improvviso imparentato con i più illustri Maradona della storia argentina, dal medico rurale Esteban Laureano, ricordato per il suo lavoro nelle comunità indigene della provincia di Formosa, al politico Santiago Maradona, incarcerato dopo il golpe militare del 1930 e per tre decenni vestito a lutto, in memoria della “defunta democrazia”. Proprio lui, secondo tale teoria, sarebbe stato il padre extramatrimoniale della nonna paterna di Diego, la madre di suo padre Don Diego detto Chitoro, nato nel 1927 nella località di Esquina, in provincia di Corrientes, dove Diego Armando si rifugerà spesso a pescare dorados, e dove nel 1995 allenerà il sorianesco Deportivo Mandiyú.

Insospettito dalle non poche incongruenze temporali, Guillermo confronta l’albero genealogico dei Fernandez-Maradona di San Juan con quello dei Maradona di Corrientes, poi emigrati verso i sobborghi di Buenos Aires che vedranno crescere il Pibe de Oro. Incrociando i dati ottenuti con gli antichi censimenti provinciali e nazionali e con i più recenti studi del collega Juan José Arancibia sulle liste dei soldati dell’esercito delle Ande partiti da San Juan nel 1817, Guillermo mette insieme un quadro avvincente, esposto nel settembre del 2022 al XV Congresso di Genealogia e araldica di Cordoba: il primo vero Maradona radicato in provincia di Corrientes sarebbe stato Juan Evangelista Maradona, figlio del “violinisto” liberto Luiz Maradona, arruolato nell’esercito delle Ande, e di Agustina Maradona, entrambi schiavi di don Juan Ignacio Maradona, padrone da cui presero il cognome, a sua volta figlio di Francisco Fernandez-Maradona, capostipite della dinastia dei Fernandez-Maradona di San Juan.

Nato nel 1812, alla vigilia della legge sulla “Libertà dei ventri” che sanciva la libertà dei figli degli schiavi, Juan Evangelista Maradona, figlio di Luiz e Agustina, avrebbe poi abbandonato gli aspri deserti andini di San Juan per la più fertile e prospera Corrientes, stabilendosi a Esquina, o meglio a Santa Rita di Esquina, luogo dove i primi coloni italiani depositarono l’effige di Santa Rita da Cascia, la Santa degli impossibili che si invoca quando tutto sembra perduto. Tra il 1859 e il 1865, dal matrimonio tra Juan Evangelista Maradona e la correntina Maria Martinez nasceva Victoria Maradona, di mestiere lavandaia, ragazza-madre di Saturnino Maradona, nato nel 1888, manovale, sposato con Lucia Vallejos: sarebbero loro, Saturnino e Lucia, i genitori di Don Diego Senior, il marito di Dalma Salvadora Franco, la famosa Doña Tota che il 30 ottobre del 1960, all’ospedale Evita di Lanús, darà finalmente alla luce il Diego Nostro. Che discendente non fu di nobili, dunque, ma dei loro schiavi, sostiene il professor Collado Madcur.

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Sulla Negritudine del Diego

Per quanto in Argentina l’afro-discendenza sia una variabile che i censimenti nazionali contemplano solo a partire dal 2010, in questo paese che si racconta costruito da immigrati europei, importati per (ri)popolare un deserto ripulito dagli indios – e che tanto “deserto” evidentemente non era – nel millesettecento quasi milleotto i neri erano almeno un terzo della popolazione: spesso imbarcati in Congo, Guinea e Angola, scaricati a Buenos Aires, uno dei principali scali schiavisti dell’America spagnola, e venduti nel quartiere di Retiro, nella piazza oggi intitolata proprio al Generale San Martin.

Ora, il fatto che Luiz Maradona fosse uno schiavo, e che gli schiavi fossero regolarmente africani o afrodiscendenti, apre nuove prospettive in termini di genealogia (e geniologia) maradoniana: e se il negrito di Villa Fiorito avesse davvero avuto radici africane? Se quella pelusa nera e crespa e quel corpo felino e portentoso fossero eredità di ancestrali memorie d’ebano? Se quella negritudine che in Argentina si riduce a generico stigma sociolinguistico per poveri e marginali – gli scamiciati negros cabezas che d’estate mettono i piedi nelle fontane di Buenos Aires – in Maradona trovasse ora un più antico e solido riferimento ai nati in catene, considerati “liberti” solo dopo aver combattuto per la Patria?

Ecco, se le cose stessero davvero così, forse l’Enciclopedia Maradoniana avrebbe finalmente il suo volume mancante. E in caso suonassero alla porta, per recapitarvelo, aprite, per carità di Diego, che questo prequel della sua saga sarebbe piaciuto anche a Lui, figlio spurio del paese più bianco dell’America Latina.

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