La storia ha attirato l’attenzione del New York Times che a marzo le ha dedicato un lungo articolo. Alla fine di gennaio le dieci monache carmelitane di Cypress Hill, a Brooklyn, hanno lasciato il loro monastero per un luogo più tranquillo, nel cuore della Pennsylvania rurale.

Dopo un ventennio, il frastuono cittadino – ormai anche di notte – era divenuto incompatibile con il silenzio, caratteristico della loro scelta esistenziale e di giornate che iniziano all’alba e sono segnate dai tempi della preghiera.

A New York rimangono così solo quattro monasteri di vita contemplativa: due a Brooklyn, uno nel Bronx e un altro a Queens. «È una grande perdita perché so quanto amano la città e i loro vicini» ha dichiarato al quotidiano un benefattore che ha aiutato le religiose a costruire il nuovo monastero, a una cinquantina di chilometri da Scranton. E di rimando, con una punta di nostalgia, madre Ana María ha confermato che le carmelitane continueranno a pregare per New York.

Sembra un paradosso la piccola vicenda raccontata dal grande quotidiano statunitense: proprio quando sembra diventata difficile l’esperienza della preghiera quotidiana – soprattutto in un contesto distratto e convulso come quello della metropoli americana, simbolo della contemporaneità – si continua invece a pregare. E anzi proprio per quel mondo si prega. Come in realtà si è sempre fatto in diverse tradizioni religiose, naturalmente con molte differenze.

Taizé e Bose

Più di mezzo secolo fa su una collina della Borgogna la vita monastica, scandita dalla preghiera, di una comunità fondata subito dopo la Seconda guerra mondiale da un protestante svizzero, Roger Schutz, iniziò ad attirare giovani da tutta Europa.

Il singolare esperimento monastico, nato sotto il segno della riconciliazione tra le confessioni cristiane, affascinava infatti anche per la preghiera che ritmava la giornata dei fratelli di Taizé. Come qualche anno più tardi, dopo il concilio Vaticano II, è avvenuto in Piemonte con la comunità, maschile e femminile, di Bose, attirando l’attenzione della cultura laica e molto contribuendo alla conoscenza del mondo ortodosso. E oggi, in rete, i siti di Taizé e di Bose – per limitarsi a questi due esempi europei di respiro ecumenico e risonanza internazionale – sono visitati ogni giorno proprio per la possibilità che offrono a tutti di pregare e di pensare grazie a testi antichi e a riflessioni contemporanee.


Decenni prima, subito dopo la Prima guerra mondiale, era arrivato il successo clamoroso di un testo pubblicato a Kazan nel 1881, i Racconti di un pellegrino russo, dall’inizio indimenticabile: «Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per opere grande peccatore, per vocazione pellegrino senza dimora, del ceto più basso, errante di luogo in luogo». Entrato in una chiesa durante la liturgia, il pellegrino – che porta con sé solo del pane secco e una Bibbia logora – ascolta le parole della Prima lettera ai Tessalonicesi, dove verso la fine san Paolo esorta a pregare «incessantemente».


È la scintilla da cui muovono i racconti. «Queste parole mi si radicarono nella mente e cominciai a pensare: come è possibile pregare incessantemente, se ciascuno deve per forza preoccuparsi anche di tante altre cose per il proprio sostentamento?» si chiede il pellegrino. Che troverà poi la risposta nella «preghiera di Gesù» – detta anche «preghiera del cuore» – ripetuta di continuo.

Questa formula è un adattamento di quanto ripete il pubblicano vividamente raffrontato al fariseo nella parabola del Vangelo secondo Luca. La brevissima preghiera – «Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore» – risale alla tarda antichità, ma viene diffusa come tecnica contemplativa soprattutto dal monachesimo bizantino esicasta (dal greco hesychìa, “quiete”) tra il XIII e il XIV secolo. Arrivando appunto ai racconti del pellegrino, che nel 1961 catturano la protagonista di Franny e Zooey di Salinger e sono definiti da Cristina Campo «un grande trattato spirituale, un romanzo picaresco, un risplendente poema russo e una fiaba classica».

Il rosario

Ma la preghiera attraversa tutte le tradizioni religiose, come mostrano i diciotto autori del libro Pregare, un’esperienza umana (Vita e Pensiero), illustrato con fotografie di Sebastiana Papa e nato dalla scoperta di un filo rosso – il rosario, che collega credenze e fedi diverse – da parte di un antropologo, Franco La Cecla, e di una storica, Lucetta Scaraffia.

«Questo strumento di preghiera racconta qualcosa di interessante: che quando la gente prega lo fa in un modo che è molto simile nelle pratiche, anche se può essere differentissimo nei contenuti», che variano dalle diverse confessioni cristiane alle declinazioni islamiche, dal buddismo all’induismo.

Per «ribadire qualcosa che il nostro mondo preoccupato dai conflitti religiosi ma anche afflitto da una laicità miope ha dimenticato: e cioè che la gente prega, che l’umanità nella sua vastità e babilonica differenza prega. Lo fa perché cerca la divinità nella vita di ogni giorno e perché i fatti della vita devono essere investiti da un senso» scrivono i due curatori, che definiscono la preghiera «un’arte quotidiana del vivere».

Prescrizioni e tempi della preghiera si differenziano nelle religioni. Si prega cinque volte al giorno nell’islam e tre volte nell’ebraismo. Dalla tradizione ebraica i cristiani di ogni confessione hanno ripreso moltissimo: i testi pregati e cantati (soprattutto i centocinquanta Salmi) e i momenti principali della preghiera quotidiana, almeno tre nelle comunità religiose, come oggi a Taizé e a Bose.

Elevare l’anima

«All’ora dell’ufficio divino, non appena si sia sentito il segnale – prescrive intorno all’anno 540 l’equilibrata Regola di Benedetto, ispiratrice di tutto il monachesimo occidentale – si lascino tutte le eventuali cose che si abbiano fra le mani e si corra con la massima fretta, se pure con serietà, perché non trovi alimento la dissipazione. Nulla, dunque, sia anteposto all’ufficio divino», che nel latino della Regula è, letteralmente, «opera di Dio», opus dei. Due secoli più tardi, nella Siria ormai occupata dagli arabi, Giovanni Damasceno riassume l’insegnamento degli autori più antichi: «La preghiera è l’elevazione dell’anima a Dio o la richiesta che gli viene fatta di ciò che è necessario».


Nei vangeli è soprattutto Gesù a pregare, ritirato nel silenzio, e a insegnare con il Padre nostro come si prega. Lo ricostruisce in modo esemplare e convincente – per rispondere alle «domande odierne» e a critiche dure come quelle di Kant e di Nietzsche – il grande teologo protestante Oscar Cullmann, esperto delle origini cristiane, in un libro ora riedito dalla Claudiana, La preghiera nel Nuovo Testamento. Dove tra l’altro è ricostruita la forma autentica della preghiera insegnata da Gesù (e trasmessa dai vangeli di Luca e di Matteo), grazie anche ai molti testi di poco anteriori che vennero clamorosamente scoperti tra il 1947 e il 1961 a Qumran, nei pressi del mar Morto.


Sulla base dei libri neotestamentari, di fronte alla difficoltà di pregare Cullmann risponde che il male è già vinto, ma «può affrancarsi e vincere temporaneamente, e dev’essere combattuto da Dio: un paradosso, che va però visto alla luce della vittoria già conseguita e ancora a venire, ma già sicura».

Di fronte a Hitler lo mostrò Dietrich Bonhoeffer con la sua ultima preghiera e il martirio, perché «con le nostre preghiere, diventiamo gli assistenti di Dio nella lotta contro il male nel mondo».


Dio naturalmente «non ha bisogno delle nostre preghiere, ma le vuole» riassume Cullmann. Come ha intuito meravigliosamente Isabella Ducrot, un’artista napoletana novantaduenne che ha raffigurato in grandi opere su carta la Discesa dello Spirito santo (esposte sino alla fine del mese nella galleria romana T293). A invocarla sono figure coloratissime con le braccia levate e protese verso le fiammelle che scendono dall’alto, con un gesto di fronte all’inatteso. Che la stessa artista, nel piccolo libro I ventidue luoghi dello spirito (Quodlibet), descrive come «il possibile miracoloso che oggi sembra riguardarci in modo nuovo».

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