Sono circa 700mila. Persone, donne e uomini, se abitassero nella stessa città sarebbe la quinta più popolosa d’Italia. Sono, letteralmente, un pezzo di Paese distribuito da Nord a Sud, che la politica per troppo tempo ha ignorato.

Sono i “silenti Enasarco”, ex lavoratrici ed ex lavoratori che per anni hanno obbligatoriamente versato contributi all’Ente nazionale di assistenza per gli agenti e i rappresentanti di commercio (Enasarco), ma che oggi si ritrovano senza una pensione integrativa. Quanto da loro obbligatoriamente versato è infatti lì (la contribuzione è obbligatoria, non c’è possibilità di sottrarvisi), nella Fondazione, ma appunto “silente”: denaro non riscattabile e non cumulabile con l’Inps, né generativo di alcuna forma di rendita o di pensione. Immobile, inutilizzabile fino alla prescrizione, quindi la totale perdita di ogni diritto su di esso.

La pensione è già pagata ma non c’è

Il motivo è che per tantissimo tempo la Fondazione Enasarco ha adottato requisiti molto stringenti per l’accesso alla pensione, il più rigoroso dei quali è stato senza dubbio quello di un’anzianità contributiva minima di vent’anni, che non sono affatto pochi. Tradotto: se per 19 anni hai lavorato come agente di commercio versando all’Ente decine di migliaia di euro, e per un qualunque motivo non riesci più a lavorare e quindi continuare a contribuire fino ai 20, non ti spetta niente. Diventi “silente”, senza alcuna possibilità di appello. Con la beffa, sopraggiunta solo recentemente, di vedersi due volte esclusi poiché giusto lo scorso anno Enasarco ha di fatto ridotto l’anzianità minima contributiva a cinque anni (non erogando qui una pensione ma una forma simile, una rendita chiamata contributiva), ma nel far questo ha tagliato fuori tutti coloro iscritti all’ente prima del 2012, ossia la stragrande maggioranza.

Storia di Francesco

A ritrovarsi dunque doppiamente beffati sono appunto circa 700mila italiane e italiani. Tra di loro, Francesco Briganti, il “silente” che nel 2018 mi fece conoscere la vicenda, quando iniziò uno sciopero della fame contro questa ingiustizia. «Per dignità, per la mia dignità», mi disse. «Perché così non mi sento più nemmeno una persona». Aveva ragione: lavorare una vita intera, versare obbligatoriamente contributi ad un ente e poi ritrovarsi un niet di fronte alla legittima richiesta di avere una meritata pensione o la restituzione del proprio denaro, è un qualcosa che lede alla dignità della persona. Che la fa sentire ostaggio, impotente. Uno a cui “ha detto male” e che deve necessariamente piegarsi alla volontà del forte di turno, in questo caso un Ente con un patrimonio di miliardi.

All’epoca, da non parlamentare cercai di aiutarlo a dare visibilità alla sua protesta, che era la stessa di altre centinaia di migliaia di persone. Ma dopo un iniziale ascolto (e tante promesse) da parte della politica, nulla si risolse.

Oggi, a distanza di quasi sette anni, i silenti sono infatti ancora tali. Per questo la scorsa settimana, ho riacceso l’attenzione sul tema da una posizione diversa da quella dell’epoca, ossia da parlamentare del Pd. Dopo aver riascoltato Francesco, che nel frattempo aveva iniziato un nuovo sciopero della fame, ho presentato un ordine del giorno a mia prima firma che impegna il Governo a promuovere una risoluzione del problema. Un odg che ha visto il prezioso aiuto dei miei colleghi Arturo Scotto e Cecilia Guerra e che, per mia gioia, è stato votato alla Camera, passando con esito favorevole.

Un ordine del giorno votato da tutti

Ora, quell’odg è solo un primo passo. Aver dato nuova visibilità alla questione non la risolve, ma fa in modo che non torni nell’oblio. La cattiva politica gioca infatti sulla finta risoluzione dei problemi tramite annunci e comunicazioni, inghiotte e macera questioni di continuo dando l’illusione di starli davvero trattando solo con gesti simbolici e spesso roboanti. Io sono invece convinto che la politica sia altro: costruire un percorso serio, realistico ma concreto per risolvere davvero i problemi delle persone. E questo è, oggettivamente, un problema enorme, specchio di un’ingiustizia altrettanto enorme.

Si parte dunque da quell’atto parlamentare: fondamentale perché ha incassato il parere favorevole di maggioranza e opposizione, testimoniando la volontà (almeno su carta) di chi governa di occuparsi del tema assieme a noi della minoranza. Ma il lavoro, adesso, è tutto da sviluppare.

Ci sono già alcune ipotesi in campo che partono da un dialogo triangolare tra Stato, Enasarco e silenti, ma raccogliamo praticamente ogni giorno nuovi spunti, nuove idee che devono essere attentamente vagliate e ponderate. Il tema, va detto, è infatti tanto importante quanto problematico e complesso: parliamo di centinaia di migliaia di persone a cui viene negata una pensione. Parliamo, per esser chiari, di centinaia di milioni di euro anche solo sul breve periodo. Ma una risoluzione è necessaria: serve per sanare una profonda e inaccettabile ingiustizia nei confronti di tante e di tanti. Chi oggi siede al governo ha fatto tante promesse, poi puntualmente tradite, su pensioni, esodati e quindi silenti.

Un impegno da rispettare

Con l’approvazione del mio ordine del giorno, il governo si è preso un impegno. Quell’impegno non è con me, ma con i 700mila silenti Enasarco. Incalzeremo la maggioranza affinché risolva il problema, perché noi, come minoranza, non bastiamo. Lo faremo non perché riguarda la destra o la sinistra, ma perché riguarda la vita. Tocca a noi, tocca al governo evitare di tradire nuovamente le speranze di tante persone. Per Francesco e per i tanti lavoratori e le tante lavoratrici che come lui oggi chiedono solo una cosa: la dignità di vedersi riconoscere anni di lavoro e di contributi versati con sacrificio. 

Noi collaboreremo nel modo più leale. Lo scrive uno che non è certo tenere con il governo, anzi, ma che di fronte alla possibilità di migliorare la vita delle persone collaborerebbe persino con il diavolo.

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