Come spesso accade le cose che appaiono immutabili e delle quali si difende la loro immutabilità, non sono sempre state così. E questo è vero soprattutto quando si parla di quelle leggi che, nel tempo, si sono adattate ai cambiamenti sociali, economici e demografici. La legge sulla cittadinanza, per esempio.

Quadro normativo

Fu il codice civile del 1865 a sancire il principio dello ius sanguinis e che cittadino è «il figlio di padre cittadino». Il sangue cui si faceva riferimento era quello del padre, e il diritto si perdeva nel caso di acquisizione della cittadinanza di un altro paese.

L’Italia nel frattempo si trasformò in un paese di massiccia emigrazione, soprattutto verso il continente americano, dove i coloni avevano stabilito un altro principio: quello dello ius soli, per il quale diventava cittadino chi nasceva nel territorio di quei paesi.

Nel 1912 gli italiani che espatriarono furono circa 712mila, e di questi 400mila verso il continente americano: l’Italia non poteva perdere così tanti cittadini, perciò venne apportata una modifica alla legge per consentire ai figli di connazionali nati in paesi con ius soli di non perdere la cittadinanza italiana. Anche qui, il sangue che trasmetteva la cittadinanza restava quello del padre.

La derivazione della cittadinanza per linea materna diventa possibile con l’entrata in vigore della Costituzione, il 1º gennaio 1948, e diventa legge solo con la riforma del diritto di famiglia del 1975. E la cittadinanza agli stranieri? Su questo il codice civile sin dal 1865 prevedeva la possibilità di acquisire questo diritto dopo 5 anni di legale residenza. Un parametro rimasto tale fino al 1992, quando le cose cambiano.

L’Italia da paese di partenza diventa paese di approdo, ci sono i grandi sbarchi degli albanesi sulle coste della Puglia, il dibattito sull’immigrazione si accende, e si fa più preoccupato. Su quelle spinte il governo Amato decide di raddoppiare gli anni di legale residenza in Italia necessari per avere la cittadinanza da 5 a 10.

Fu un errore cui lo stesso Giuliano Amato da ministro degli Interni, nel 2006, provò a porre rimedio con un disegno di legge che riportava quel termine a 5 anni. Senza successo. Troppe cose erano accadute nel mezzo: la paura e la propaganda insieme a una narrazione delle sofferenze della passata emigrazione italiana ebbero la meglio.

Su quest’onda fu approvata la legge sul voto degli italiani all’estero, voluta nel 2001 dal ministro degli Italiani nel mondo Mirko Tremaglia, dirigente storico del Movimento sociale italiano e poi di Alleanza nazionale. Si scelse, così, di rafforzare uno sguardo al passato invece di regolare i cambiamenti avvenuti nel frattempo.

Mancato riconoscimento

La conseguenza ce l’abbiamo ancora sotto agli occhi: quella di un paese che non dà alcun riconoscimento a centinaia di migliaia di italiani e italiane di fatto che qui vivono, studiano, lavorano, pagano le tasse e rispettano le leggi.

Senza la cittadinanza queste persone non possono votare, partecipare a concorsi pubblici, studiare e viaggiare liberamente all’estero e nemmeno rappresentare l’Italia nelle competizioni sportive. E arriviamo alla cronaca.

Per tutta l’estate pareva essersi riaperto un dibattito su ius soli e ius scholae, con una presa di posizione addirittura di Antonio Tajani. Dibattito che ha svelato tutta la sua ipocrisia proprio ieri quando Forza Italia alla Camera ha bocciato persino il suo stesso emendamento.

Ma un modo concreto per fare qualcosa sul tema della cittadinanza c'è: sostenere il referendum promosso dai giovani italiani senza cittadinanza insieme a una robusta rete di associazioni e partiti. Il quesito è semplice: ridurre a 5 (invece dei 10 oggi richiesti) gli anni di legale residenza necessari per richiedere la cittadinanza.

Questo allineerebbe l'Italia al resto d’Europa e riconoscerebbe un diritto fondamentale a tante persone che finora la politica col suo cinismo ha solo illuso. Si firma online con spid su www.referendumcittadinanza.it. C'è tempo fino al 30 settembre.

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