Lisa si è trasferita da poco a Valencia, è andata via da Bologna, o meglio è stata «sbattuta fuori» con un foglio di via perché «socialmente pericolosa» dopo aver partecipato a una manifestazione pacifica in occasione del G7 Scienza. Ora mentre è sotto le alluvioni in Spagna, scrive a Domani, pensa alla sua città colpita la scorsa settimana dalle piogge
Sarei voluta andare a Bologna a spalare il fango ma non l’ho fatto. Avrei potuto, molti miei amici l’hanno fatto: compagne attiviste, conoscenti, ex compagni di corso dell’università… Avrei potuto farlo anch’io, anch’io sarei potuta scendere in strada armata di vanga e di stivali, ma se l’avessi fatto, la polizia mi avrebbe arrestata.
È da luglio di quest’anno che non posso mettere piede nella città in cui ho abitato e studiato, in cui mi sono laureata il 2 luglio, appena una settimana prima di esserne sbattuta fuori per avere osato esercitare il mio diritto al dissenso partecipando a una manifestazione pacifica. Di seguito il bilancio di un’azione di disobbedienza civile nonviolenta: quattordici fogli di via, alcuni dei quali peraltro totalmente illegittimi, perché notificati a persone che in quella città tuttora vivono e studiano, un’attivista costretta a spogliarsi in questura, che ha poi a sua volta sporto denuncia nei confronti di chi l’ha costretta a subire questa violenza; infine, per chi non ha ricevuto il foglio di via, avviso orale di pericolosità sociale.
Sul foglio che mi è stato consegnato a seguito della protesta del 9 luglio c’è scritto che non posso recarmi a Bologna per un anno perché sono «socialmente pericolosa». L’atto che mi ha resa tale agli occhi delle istituzioni? Avere prestato supporto ad alcune persone calatesi da una terrazza di Palazzo d’Accursio per appendere uno striscione che interpellava i potenti del mondo, i capi di stato riuniti in città in occasione dell’appuntamento del G7 a tema “scienza e tecnologia”.
Le reazioni di chi mi conosce nel vedermi caratterizzata in questa maniera sono andate dallo sconcerto al divertimento, come se non potesse trattarsi di realtà ma solo di uno scherzo, alla profonda preoccupazione per la deriva di una politica che sembra avere come unica preoccupazione quella di rendere impossibile l’espressione del dissenso. Una situazione già assurda di per sé, che però ancora non aveva raggiunto neanche lontanamente il culmine del paradosso.
Pochi giorni fa mi sono svegliata ricevendo su whatsapp messaggi di persone spaventate che arrancavano per strada con l’acqua alle ginocchia, e poi le richieste di aiuto di chi si è ritrovato la casa allagata, e infine le offerte di chi poteva fornire braccia per liberare le vie dal fango. E io cosa ho fatto? Io non ho potuto fare nulla se non rassegnarmi di fronte a un’impotenza ancora più intollerabile rispetto a quella che già normalmente mi capita di provare pensando all’enormità della crisi climatica. A impedirmi di agire in contrasto alla catastrofe stavolta non era la legge della natura, bensì quella certamente più convenzionale, ma ugualmente minacciosa, di una disposizione della questura.
Una sensazione intollerabile a tal punto che sono stata più volte corteggiata dalla tentazione di ricorrere nuovamente alla disobbedienza civile. Il pericoloso atto criminale che avrei compiuto questa volta? Imbracciare una vanga e spalare, a fianco delle compagne, a supporto di amici e concittadini sconosciuti, correndo in aiuto a persone di ogni età, estrazione sociale e appartenenza politica.
Sarei stata, credo e spero, rappresentazione di un bel dilemma morale: cosa avreste provato vedendo l’immagine di un’attivista trascinata via dalla polizia in mezzo al fango venendo accusata di… cosa? Quali denunce? Eccessiva solidarietà? Cospirazione nei confronti della fanghiglia? Collusione con altri minacciosi spalatori? Sovvertimento del disordine costituito?
Il pensiero mi ispirava sensazioni tra il grottesco, il divertente e il desolante. Ho scelto, però, almeno per una volta, quella che pensavo sarebbe stata la via più facile, quella dell’obbedienza e del quieto vivere; del buon senso o della codardia, chiamatela come volete.
E quindi sono partita per Valencia, per partecipare a uno scambio giovanile Erasmus, un’esperienza formativa della durata di una decina di giorni, lasciandomi alle spalle le immagini di devastazione di una tragedia che non potevo fare mia, con la speranza di poter vivere, almeno per qualche giorno, una vita spensierata. Però qua la vita non è spensierata, anzi, è appesa a un filo.
Sto scrivendo da Benicasim, che dista circa un’ora di macchina da Valencia. Siamo in trenta in un ostello in riva al mare, che aspettiamo. Le strade della città più vicina allagate, i mezzi di trasporto fermi. Aspettiamo, dormendo in camere di ostello che gocciano dal soffitto. Aspettiamo e speriamo perché ci hanno detto che non è finita, che la pioggia non cesserà e anzi che il peggio deve ancora arrivare.
Aspettiamo e contiamo i morti tutto attorno a noi. Per ora sono oltre 140. Dovessimo essere noi i prossimi credo che sarei in pace perché, mi ripeto tra me e me, come un mantra, il cuore della gioventù che lotta non cessa mai di battere. Da Valencia, penso così alla mia Bologna, e alla devastazione che ci lega. Ora sì che la sento un po’ più mia, un po’ più vicina. Ma a che prezzo?
© Riproduzione riservata