Un nuovo aumento dei costi di membership della Nato. Con tutta probabilità, sarà questa la principale richiesta che Donald Trump avanzerà sul tavolo dell’Alleanza atlantica dopo il suo insediamento.

Una richiesta che rischia di rivelarsi ancor più onerosa per quegli alleati che ancora non soddisfano il requisito del 2 per cento. Tra questi figura anche l’Italia che, secondo i dati forniti dalla Nato, spende l’1,49 per cento del suo Pil per la difesa. Per evitare di finire sul banco degli imputati quando alla Casa Bianca sarà ufficialmente iniziato il nuovo corso repubblicano, Palazzo Chigi deve iniziare a formulare una strategia per rispondere alle prevedibili pressioni statunitensi.

Negli ultimi dieci anni l’Italia si è trovata già tre volte a dover gestire un aumento della richiesta di burden sharing. La prima volta risale al 2014, quando il presidente americano Barack Obama ottenne dagli alleati l’impegno a rispettare il criterio del 2 per cento entro il 2024.

Allora la spesa italiana per la difesa si attestava sull’1,14 per cento e Roma, pertanto, fu chiamata a incrementare sensibilmente il suo contributo. La seconda volta è stata nel 2017, ai tempi della prima presidenza di Trump, con l’Italia che continuava a trovarsi in notevole difetto, attestandosi sull’1,2 per cento di Pil investito in difesa. L’ultima richiesta è arrivata nel 2022, dopo l’aggressione russa all’Ucraina, quando la Nato ha caldamente invitato gli alleati a investire in capacità di combattimento convenzionale.

Se l’Italia è riuscita a tenere testa alle richieste alleate in tutte le tre occasioni non è stato solo perché Roma ha aumentato la spesa militare. Negli ultimi dieci anni, d’altronde, l’unico incremento sostanziale di spesa reale rispetto al Pil si è verificato tra il 2019 e il 2021, quando il budget per la difesa è passato dal 1,17 per cento al 1,54 per cento. In realtà, il vero strumento che ha permesso all’Italia di parare i colpi più pesanti sferrati dai suoi critici è stato quello del contributo offerto dalle nostre forze armate alle operazioni Nato e americane.

Negli ultimi dieci anni, infatti, il numero di militari italiani impiegato all’estero è decisamente cresciuto. Mentre nel 2014 non superava le 4.440 unità, nel 2024 il parlamento ha approvato un contingente massimo complessivo di oltre 11.166 uomini, triplicando lo sforzo rispetto a dieci anni prima. Gran parte delle unità aggiuntive è stata indirizzata verso iniziative Nato – più di 3 mila unità solo per le iniziative sul fianco orientale dell’Europa – e statunitensi: più di 1.500 unità solo in Iraq, impegnate contro l’Isis.

È stata soprattutto questa strategia che ha permesso all’Italia di evitare critiche simili a quelle che Trump ha rivolto tra il 2018 e il 2019 alla Germania.

Allora Berlino spendeva poco più di Roma per la difesa, ma il suo contributo alle missioni internazionali era circa un terzo di quello italiano. Anche quando è scoppiata la guerra in Ucraina, sebbene l’Italia fosse uno dei pochissimi alleati a non aver aumentato sostanzialmente il proprio budget, la sua posizione di secondo contributore – dopo gli Usa – alle iniziative militari alleate le permise di schivare le critiche.

Il problema con cui oggi Roma rischia di scontrarsi è che, messa di fronte a un’ennesima richiesta di aumento di burden sharing, non potrà contare sul suo solito jolly. Come ha fatto notare l’ammiraglio Cavo Dragone in parlamento, nelle attuali condizioni in cui versano, le forze armate non riuscirebbero a sostenere un ulteriore incremento del loro dispiegamento all’estero. Non solo perché i militari italiani sono pochi rispetto ai compiti che devono assolvere – alle operazioni internazionali occorre aggiungere quelle nazionali, con circa 7mila unità impegnate nell’operazione Strade sicure per i prossimi tre anni. Ma anche perché il personale delle Forze Armate ha un’età media sempre più alta e, quindi, il suo impiego risulta più difficile, per ragioni di salute e familiari.

All’interno di questo quadro, già arrivano dalla futura amministrazione Trump le prime avvisaglie di una richiesta agli alleati di un aumento del loro contributo, come confermato dal vicepresidente eletto.

JD Vance, infatti, pur riaffermando l’importanza delle relazioni transatlantiche ha dichiarato che la Nato non può essere ridotta a «un cliente di welfare», ma «dovrebbe essere una alleanza reale».

L’Italia, quindi, non avrà altre opzioni se non procedere all’aumento del suo budget per la difesa. A giudicare dai sondaggi, si tratta di una scelta che, pur trovando resistenze nell’opinione pubblica, potrebbe risultare inevitabile.

La carta giocata finora – scaricare i costi della membership Nato sulle forze armate – non è più percorribile, a meno che non si scelga di sovraccaricare i nostri militari fino a comprometterne l’efficacia operativa.

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