Sono state le Olimpiadi dell’accettazione della sconfitta senza drammi. Ma pure della solenne ’ipocrisia sul significato della parola inclusione
Ora che i francesi hanno tirato giù la mongolfiera e hanno spento il fuoco di Olimpia, a ripensarci stamattina con la mente fresca, non poteva che finire in questo modo. Il caso si diverte a costruire foreste di segni, per ridere di noi quando cerchiamo un senso. Così l’ultima medaglia italiana per eguagliare il totale di 40 raggiunto tre anni fa a Tokyo è arrivata da un gruppo di ragazze, sotto la guida di un uomo che venne dall’Argentina per insegnarci prima come si perde, e poi come si vince.
Si perde guardando negli occhi la sconfitta senza lasciarsi pietrificare, si perde chiamando un rovescio con il nome suo ma senza sentirsi per questo dei falliti, si perde come di nuovo ha ripetuto ieri Julio Velasco, quando da Parigi ha mandato una carezza a Baggio, ancora affranto al ricordo di trent’anni fa, Pasadena, la finale persa con un suo tiro sopra la traversa. «Io non mi sento come Baggio che dice di non avere pace perché ha sbagliato un rigore, anche lui dovrebbe essere in pace. Succede».
La sconfitta
Così si perde, e finalmente così hanno perso ragazze e ragazzi a quest’Olimpiade, sapendo che sì, succede. È l’evento più probabile di tutti ma siamo cresciuti nella tossicità di sentirci sconfitti anche quando non dovremmo. Il quarto posto lo chiamiamo ancora medaglia di legno, un disvalore, quando invece è il piazzamento del più forte al mondo tranne tre (sempre Velasco).
Doveva arrivare questa generazione nuova a imporre un agonismo nuovo, un agonismo dolce, capace di attraversare i muri e le inimicizie fra paesi, com’è successo nel lancio del giavellotto fra un indiano e un pakistano o nel tennis tavolo fra coreani del nord e del sud. Doveva arrivare una banda di teenager non più disposta a confondere una gara con l’odio, il colore di una medaglia con la propria identità. È la più grande eredità che questi Giochi ci lasciano, un patrimonio che adesso tocca a noi proteggere, come si fa con le piante dal gelo.
La ragioneria dei podi
Esiste certo una contabilità che separa vincitori e vinti. Gli Usa hanno raggiunto la Cina in testa al medagliere a 40 ori proprio con l’ultima gara in programma, la finale del torneo femminile di pallacanestro che non perdono da otto edizioni. C’è la soddisfazione dell’Australia per la sua migliore prestazione di sempre (18 ori) e per essere tornata davanti alla Gran Bretagna.
C’è la gioia bambina dei quattro Paesi che alle Olimpiadi erano sempre stati spettatori dei festeggiamenti altrui e che stavolta hanno preso una medaglia: Santa Lucia, Dominica, Capo Verde, l’Albania. C’è stato il primo oro di una donna cilena e il primo di una donna del Guatemala. Si va ai Giochi anche per vedere come sta il mondo.
Il mondo non se la passa bene, ma i Giochi sono una carezza. L’hanno data ai parigini usciti da dieci anni di sfiducia e terrorismo, l’hanno data soprattutto agli ultimi, quelle vite che ci sfilano invisibili sotto gli occhi ogni giorno. Una pugile algerina è andata a prendersi l’oro con un corpo che ci spaventa, smascherando l’ipocrisia della parola inclusione, quel principio secondo cui le Imane Khelif sono nei nostri cuori quando sfilano alla cerimonia, ma quando salgono sul podio ci disturbano. Una pugile nata in Camerun e riparata a Bolton ha portato la prima storica medaglia al Team dei Rifugiati, per la commozione del mondo intero.
Ma quando un’altra ragazza come lei, rifugiata, una b-girl del breaking, s’è tolta la felpa nera per mostrare una scritta con cui chiedeva libertà per le donne afghane, il comitato olimpico internazionale l’ha espulsa dalle Olimpiadi. È la regola: i messaggi politici sono vietati. Ma è buffo che per il Settebello voltato di spalle contro gli arbitri non ci siano state sanzioni, mentre viene emarginata una ragazza invitata ai Giochi proprio in virtù degli abusi che ha osato denunciare.
La fragilità
Giovanni Malagò, il capo dello sport italiano, si dice fiero di questa squadra da 40 medaglie, almeno una al giorno per la seconda Olimpiade di fila, ma soprattutto arrivate in 19 discipline differenti, un altro segno di una cultura nuova, uno sguardo più largo , la fine del calciocentrismo nella testa degli adolescenti, peraltro certificata dai dati auditel della Nazionale agli Europei in Germania, prima ancora che dai risultati del campo.
Una gioventù italiana che appartiene al mondo più di quanto appartenga ormai a noi genitori. Accetta una sconfitta per un centesimo come Benedetta Pilato o addirittura per due millesimi di secondo com’è capitato a Matteo Zurloni nell’arrampicata sportiva. È arrivato in cima, ha allargato le braccia e quando è sceso ha detto una frase meravigliosa. «Sono contento del lavoro che ho portato qui». Come fosse un regista con il suo nuovo film a Cannes.
Qualche giorno fa Niccolò Campriani ha detto ad Aligi Pontani su questo giornale che «l’Olimpiade non è fatta per costruire numeri che portino onore alla Patria, è uno strumento molto, molto potente, che espone le vite dei ragazzi che ci partecipano, soprattutto in quest’epoca di social network e di fragilità estrema». Una fragilità che siamo propensi a vedere più in loro che in noi.
È a loro che adesso tocca compiere l’ultimo passo. Vi siete presi il festival di Sanremo e lo avete trasformato con le vostre barre, la vostra trap, il vostro teatro di musica nuova, con una lingua nuova che le antiche sale stampa non capiscono. Vi siete presi le cerimonie d’apertura e di chiusura delle Olimpiadi, dove è stato possibile parlare di quello che davvero vi interessa ogni giorno, non il sesso, non il piacere, ma il desiderio – che è un’altra cosa – e dunque i diritti, le vite, le persone, i sentimenti, mentre noi non sentiamo, non capiamo, noi guardiamo solo i telefoni che usate per dirvelo.
E alla fine vi siete presi pure il senso dell’agonismo, questo gioco al quale in un giorno lontano abbiamo creduto di dare un ordine seguendo una gerarchia di metalli, l’oro, l’argento, il bronzo, quelle gare che noi abbiamo sempre considerato la prosecuzione della guerra con altri mezzi: palloni, biciclette, racchette.
È il momento ora di prendervi il resto, tutto il resto, i partiti politici, i consigli d’amministrazione, le direzioni dei giornali. È il momento di prendervi il mondo, coraggio, sbrigatevi, prima che il mondo con noi vada in fiamme.
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