La razionalità cartesiana, perseguita e tanto amata dai francesi, in questi giorni si è trasformata in una maionese impazzita. O meglio in una fiera delle vanità In cui si affastellano le candidature più improbabili per i due ruoli apicali che devono essere assegnati, la presidenza dell’Assemblea nazionale e la guida del governo. In realtà, sulla prima carica la contesa è abbastanza tranquilla.

I candidati dei vari gruppi parlamentari non sono personaggi di prima fila e persino il rissoso Nouveau Front Populaire dovrebbe presentare una figura condivisa. Tutt’altra dinamica coinvolge la designazione del primo ministro. La costituzione francese assegna all’insindacabile volontà del presidente la scelta del capo del governo, confermando così la supremazia dell’Eliseo (sede del presidente) su Matignon (sede del primo ministro). E infatti il capo del governo può anche essere sostituito ad libitum, senza alcuna limitazione.

Questo perché il presidente è eletto a suffragio universale e pertanto legittimato ad indicare chi si occuperà del “suo“ governo. Macron ha quindi le mani libere, anche se molti costituzionalisti ricordano che nel passato si è sempre dato l’incarico al leader del partito che aveva ottenuto la maggioranza. Oggi però all’Assemblea nazionale nessun gruppo ha i numeri per formare da solo un governo. E soprattutto la componente più numerosa, il NFP, non è (ancora) concorde su chi proporre.

Anzi, i litigi aumentano di intensità di ora in ora. Il partito di Mélénchon si distingue per una aggressività feroce quanto emblematica verso i compagni di strada. Ultima perla di una serie di dichiarazioni insultati, la definizione di cimici da letto lanciata dalla deputata Sophie Chikirou ai sostenitori dell’ex presidente socialista François Hollande, entrato in parlamento sotto le bandiere del NFP. Un tale atteggiamento, rinforzato dalla richiesta di presentare il programma del Fronte nella sua interezza senza cambiare una virgola e dall’ipotesi di governare per decreto, rimanda al famigerato tanto peggio tanto meglio: andare al governo anche al costo di farsi subito sfiduciare da una mozione di censura, e far piombare la Francia nell’ingovernabilità.

Dietro a tutto ciò si intravede un calcolo, ma è miope: la France Insoumise pensa che facendo piazza pulita di ogni possibile compromesso il centro macroniano affondi, preda delle sue ambiguità, e allo scadere del mandato presidenziale, tra due anni, si proporrà una competizione tra destra e sinistra, quest’ultima ovviamente capeggiata Mélénchon.

A parte che due anni sono lunghissimi in politica, la pulsione distruttiva della France Insoumise porta invece all’implosione dell’alleanza di sinistra riconsegnando così le chiavi del governo ai macroniani che non avranno più remore a formare un governo imperniato su di loro e sostenuto a destra dai neogollisti e a sinistra da socialisti ed ecologisti. A meno di un cambio di passo nelle prossime ore, le divisioni interna alla sinistra la portano alla deflagrazione con evidenti riflessi sul piano della reputazione e del consenso.

L’obiettivo presidenziale di marginalizzare le estreme, non riuscito a livello elettorale per l’imprevista vittoria del Nouveau Front Populaire, si concretizza ora a livello parlamentare e governativo. L’equiparazione tra il partito di Mélénchon e quello di Le Pen trova conferma in questi giorni nella virulenza degli attacchi agli avversari esterni e interni da parte dei dirigenti della LFI. Addirittura, a fronte questo stile gladiatorio, i lepenisti hanno toni più bassi e misurati.

Nonostante la sconfitta il Rn prosegue la strategia della dédiabolisation per accreditarsi come partito affidabile in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. E non è escluso che un governo tecnico insediato dal presidente in assenza di maggioranze politiche non veda una benevola astensione da parte lepenista. Il percorso di legittimazione del Rn rimane costellato di molti ostacoli e contraddizioni, come rivelato dal profilo impresentabile di dozzine e dozzine di suoi candidati. Ma il partito ha raccolto, da solo, più di 9 milioni voti, ai quali va aggiunto più di un milione dell’alleato Eric Ciotti, espulso dai Républicains neogollisti per il suo immediato sostegno alla lista di Jordan Bardella.

Nessun’altra formazione dispone di un plafond di voti così ampio. Rispetto ad una sinistra divisa e rissosa che non riesce a proporsi come forza di governo e ad attrarre la componente liberal del centro, anzi fa di tutto per respingerla, la destra lepenista, coesa e guidata da una leadership indiscutibile, sarà in grado di agire con maggiore libertà e spregiudicatezza nell’arena parlamentare. Con i benefit che ne possono conseguire. Ad ogni modo, le prospettive di un governo stabile e unito sono minime. E per questo Macron ha fallito.

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