Due settimane fa era arrivata l’irritazione dei liberali sul posizionamento del meloniano Raffaele Fitto nella futura Commissione europea. La scorsa settimana c’è stato l’ultimatum dei socialisti, accompagnato dalle forti perplessità dei verdi sempre su Fitto. E tutto ciò sarebbe già bastato a far cadere l’alibi sloveno – cioè le faccende di procedura – per il continuo rinvio dell’annuncio della squadra da parte di Ursula von der Leyen.

Poi questo lunedì – coi negoziati che andavano avanti intensamente perché in agenda la presentazione della squadra era prevista per il giorno seguente – è arrivato pure il j’accuse di Thierry Breton. La lettera con cui si dimette stizzito dalla Commissione europea è la potenziale bomba politica pronta a far deflagrare la futura squadra von der Leyen 2 prima ancora che sia annunciata.

Se così non sarà, è solo perché c’è pure una lettera che Breton ha preferito non scrivere, ma che è altrettanto importante per capire la vicenda: quella per Emmanuel Macron. Dietro lo “scandalo Breton” si cela un elemento chiave, che spiega anche le reazioni (o meglio, le non reazioni) di Macron e von der Leyen: pure l’Eliseo era partecipe nel rimpiazzare Breton con il fedele Stéphane Séjourné.

Cosa c’è dietro il caso Breton

L’antefatto della vicenda è il seguente: l’ex manager Breton ha rappresentato nello scorso mandato l’avamposto macroniano a Bruxelles. Nella prima commissione von der Leyen, ha avuto la delega al Mercato interno e soprattutto – per indole ma anche perché aveva l’Eliseo alle spalle – ha fatto da pungolo alla presidente, che in generale ha adottato uno stile accentratore, ma che negli ultimi tempi ha incontrato resistenze in particolare nel liberale Breton e nel socialista Borrell.

L’Eliseo aveva dato per certa una riconferma di Breton, con l’aspirazione di mettere nelle sue mani «gli interessi industriali d’Europa» (fonte francese). Mentre gli altri governi la tiravano per le lunghe – Meloni ha addirittura aspettato la scadenza del 30 agosto – Macron aveva annunciato il bis del commissario già nel summit dei leader di fine giugno nel quale si era deciso pure il bis di von der Leyen; e lo aveva ufficializzato poco dopo. Breton non era solo destinato a essere in Commissione, ma con l’aspettativa di avere un ruolo decisivo.

Quando la macroniana Valérie Hayer, capogruppo dei liberali di Renew, a inizio mese ha espresso a von der Leyen la sua «preoccupazione» per il ruolo di Fitto, sul quale si vociferava una vicepresidenza esecutiva, una delle ragioni del fastidio sotto traccia era l’eventualità che il ministro meloniano potesse scalfire in qualche modo il margine di manovra di Breton; magari in tema di competitività.

Questo lunedì mattina Breton ha pubblicato la foto di un quadro con la tela bianca, e la «breaking news: ecco il mio ritratto ufficiale per il nuovo mandato della Commissione europea». Come a dire: non ci sarò. Poi ha reso pubblica la sua lettera a von der Leyen, nella quale ha ricostruito così l’episodio: la presidente il 24 luglio ha chiesto ai leader di indicare i nomi, «specificando che gli stati membri che intendessero indicare il commissario uscente non dovessero indicare due nomi», maschile e femminile. «Il 25 luglio Macron ha designato me, come aveva già annunciato in Consiglio».

Poi «pochi giorni fa, nella fase finale dei negoziati sulla composizione del futuro collegio, Lei, presidente, ha chiesto alla Francia di ritirare il mio nome – per ragioni personali che Lei con me non ha mai affrontato direttamente – e ha offerto, come scambio politico, un presunto portafoglio più influente per la Francia. Ora Lei riceverà la proposta di un nuovo candidato». L’altro nome è arrivato con velocità fulminea, e non è quello di una donna, casomai si potesse ancora credere che le manovre politiche fossero dovute al riequilibrio di genere.

No: l’Eliseo ha proposto Stéphane Séjourné, fedelissimo di Macron, prima capogruppo di Renew (il gruppo liberale in Europarlamento) e poi richiamato a Parigi quando è nato il governo Attal (l’ex compagno di Séjourné) come ministro di Europa ed Esteri. Ora sta per essere battezzato il nuovo governo Barnier: in Francia posti ed equilibri si rimescolano. Interessante che il portavoce storico di Séjourné – che dal 2019 lo ha sempre seguito, prima negli incarichi in Ue e poi a Quai d'Orsay – già a fine agosto si fosse spostato a Bruxelles, con un incarico nella rappresentanza permanente francese in Ue.

Questo lunedì tutti gli ingranaggi dell’orologio si sono disposti in modo da far chiudere l’accordo tra l’Eliseo e Berlaymont: Barnier sta per formare il nuovo governo (dove non ci sarà Séjourné ma chissà che non trovi posto Breton) e von der Leyen deve ufficializzare la squadra.

Le conclusioni e l’Italia

«Alla luce degli ultimi sviluppi – che testimoniano ulteriormente una governance discutibile – devo concludere di non poter più esercitare le mie funzioni nel collegio», conclude Breton nel suo j’accuse diretto alla presidente. Che gestisce l’intera crisi arroccandosi dietro «il contatto costante coi leader» e la «confidenzialità del processo», come a dire che c’è pure Macron dietro il cambio.

Le parole di Séjourné – «Con von der Leyen agiremo insieme al di là delle divisioni di parte» – confermano indirettamente che con la mossa la presidente possa essersi liberata di una presenza per lei scomoda, offrendo all’Eliseo l’idea di un ritrovato protagonismo.

Casomai l’operazione dell’Eliseo possa corrispondere anche a una riformulazione del ruolo di Fitto nella futura Commissione, va detto che – dopo le telefonate di Meloni a Draghi della scorsa settimana – proprio il diretto interessato si è recato al Quirinale da Sergio Mattarella. È stato Fitto a chiedere l’incontro; un giro d’orizzonte, come si dice in questi casi, in vista della partenza per Bruxelles.

Le voci sul suo ruolo nella futura Commissione sono state per Ursula von der Leyen un utile stress test per verificare fino a che punto potesse spostare ancor più a destra gli equilibri interni di una futura Commissione che è già costitutivamente destrorsa. Il deflagrare del caso Breton rappresenta – a detta di una fonte del partito socialista europeo – il segnale che a forzare troppo si rischia «una maionese impazzita».

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