Nella Quinta Repubblica le elezioni legislative erano sempre state poco più che un “di cui” delle presidenziali. E le tre coabitazioni precedenti (Mitterrand-Chirac; Mitterrand-Balladour; Chirac-Jospin), frutto dello sfasamento delle consultazioni, si sono dipanate nel segno di un rapporto cordiale tra primo ministro ed Eliseo, anche per il sacrale rispetto della figura del presidente, una sorta di monarca repubblicano nella percezione dei francesi che lo eleggono direttamente.

Per scongiurare comunque la discrasia tra i due poteri, l'allineamento dei mandati con la riduzione da 7 a 5 anni della carica del Capo dello Stato, decisa nel 2002, non aveva più prodotto il fenomeno. E sarebbe continuata così se il terremoto delle europee di inizio giugno non avesse squassato nel profondo il quadro politico, e convinto Emmanuel Macron a sciogliere il Parlamento con conseguente veloce e precoce ritorno ai seggi.

Le convinzioni sovvertite

Fine di alcune convinzioni radicate. La più solida riguardava il primato del sistema elettorale francese rispetto agli altri meccanismi in quanto in grado di garantire la governabilità senza “ribaltoni” all'italiana.

Il corollario che ne seguiva era l'impossibilità del prevalere, grazie al doppio turno, degli schieramenti più estremisti pur in presenza di una divisione netta tra una destra e una sinistra però sicuramente democratiche e repubblicane. La risultante: una pacifica possibilità per l'inquilino dell'Eliseo di espletare le sue funzioni nel rispetto pressoché assoluto delle altre istituzioni dello Stato.

Se Mitterrand è stato l'ultimo presidente ad esercitare con carisma il ruolo; se Chirac ne ha seguito con qualche scivolata in più l'esempio; se Sarkozy è stato un punto di svolta perché vittima volontaria della “pipolizzazione” della politica; se Hollande ha cercato di incarnare la figura del capo “normale”; se... se... se... Macron ha cercato di ripristinare l'aura ieratica del primo cittadino di Francia, tanto da meritarsi per la sua postura l'appellativo di “jupitérien”, una sorta di Giove di mitologica memoria.

Nulla gli sembrava precluso in una luna di miele con i francesi che avevano fatto re il loro Piccolo Principe dopo l'ennesima “conventio ad excludendum” dell'estrema destra che aveva funzionato per la terza volta e aveva sbarrato la strada dell'Eliseo a Jean-Marie le Pen (due volte) e alla figlia Marine.

Il Piccolo Principe di Amiens, arrivato alla poltrona massima quando non aveva ancora 40 anni, era già pronosticato come il presidente di una futuribile Europa Unita quando avesse finito di servire il proprio Paese.

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Cosa rappresentava Macron

Nel 2017 era stato la risposta delle élite al populismo in espansione, la speranza di un ritorno alla resipiscenza dopo quella che sembrava un'ubriacatura di breve durata che aveva prodotto solo dei risvegli con il mal di testa e nulla di più. Rilanciava anche, Macron, l'idea che fosse la moderazione, il centro politico, l'antidoto più efficace contro le derive plebiscitarie da uomo solo al comando.

Ancora più significativa, l'idea, perché arrivava dal Paese meno sospettabile, la Francia delle passioni forti e dove l'alternativa era sempre stata tra destra e sinistra, con il centro a fare da reggicoda al dualismo dominante.

Macron è stato l'illusione di una normalità ritrovata ed esportabile, mentre era la pezza messa su un vestito logoro. Ci ha messo del suo nel descrivere una parabola discendente perché, contrariamente agli impegni, ha preferito essere il presidente dei ricchi senza capire che le masse impaurite e impoverite dalla globalizzazione chiedevano ben altre politiche, ben altre protezioni rispetto alla ricetta liberista malamente applicata nella Francia dove la fiducia nello Stato era il frutto di un generoso welfare e di condizioni sociali ed economiche che garantivano un benessere crescente e diffuso.

Dove ha sbagliato

Lungi dall'essere sconfitto, il populismo è risorto trovando nell'estremismo il terreno adatto per espandersi mentre prendevano piede dualismi inediti che hanno trovato negli apparati partitici la possibilità di espressione: città contro campagna; città contro banlieue; francesi autoctoni contro francesi immigrati. In aggiunta al classico ricchi contro poveri.

Il presidente, chiuso nella sua torre eburnea, ha cercato di riproporre la formula già vincente del moderatismo, dando qualche concessione soprattutto alla destra in tema di immigrazione e di controllo poliziesco del territorio per cercare di allargare il consenso tra gli elettori delle formazioni a lui più prossime.

Ottenendo però solo un aumento vertiginoso degli estremisti di entrambe le parti: lui è rimasto uguale mentre i tempi sono cambiati. La proposta “nuova” del 2017 è invecchiata di colpo, unitamente al suo prestigio e il presidente jupiterista è diventato il bersaglio da colpire senza nemmeno troppo riguardo.

Dopo la debacle delle europee ha speso l'ultima carta, il flangiflutti della legge elettorale solitamente barriera contro i fondamentalismi.

Eppure nemmeno quella diga ha retto davanti all'ondata inarrestabile che ha schiaffeggiato da entrambi i lati, nel primo turno delle legislative, l'isola dell'Eliseo. E che lo obbligherà, al secondo turno, a una coabitazione assai diversa da quella dei suoi predecessori, con forze in ogni caso ostili. O nella migliore delle ipotesi al varo di un governo tecnico che suona come una bestemmia nel Paese dove non si era mai perso, sinora, il principio del primato della politica.

Le prospettive

Comunque vada oggi, al secondo turno di consultazioni legislative mai cosi importanti e drammatiche, uscirà il quadro di un paese spaccato in due. Due France inconciliabili, sideralmente distanti l'una dall'altra, e che non si riconoscono reciprocamente la legittimità di esistere.

In mezzo, un capo dello Stato assai poco rappresentativo e con l'autorità derivante dal ruolo ridotta al lumicino. Non è difficile pronosticare (sperando tuttavia di essere smentiti) l'aumento dei moti di piazza, con derive anche violente.

Del resto le piazze francesi sono state i luoghi abituali di proteste di ogni segno, negli anni lunghi di uno scontento che ha colto ogni pretesto per appalesarsi pubblicamente. Né si può, da italiani, «guardare dalla riva l'altrui naufragio» per citare Lucrezio, cullandoci nell'illusione che non ci riguardi e di essere immuni.

Nel mondo globalizzato i paesi sono vasi comunicanti. Figurarsi quello che è nostro cugino e sta appena aldilà delle Alpi.

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