Il leader dei Labour è un vincente, ma dal clima alla lotta alle diseguaglianze ha posizioni moderate. Finisce male il lungo regno dei conservatori, che adesso temono di essere divorati da Farage
La rivincita laburista del Regno Unito lascerà un retrogusto amaro dopo l’ubriacatura: fino a che punto può festeggiare, la sinistra, quando vince con un leader che di sinistra non è? Il centrista Keir Starmer è l’uomo sbagliato al momento giusto: lui che dai britannici è tutt’altro che amato – fino all’ultimo momento prima del voto YouGov ci ha mostrato che soltanto un britannico su cinque gradisce il personaggio – si è trovato alla guida del partito laburista nella fase di rilancio.
E la ripresa del Labour – in grande e prolungata rimonta sui Conservatori – non è la dimostrazione che annacquare le politiche redistributive, l’europeismo, la vocazione alla giustizia sociale e climatica, funziona per strappare un governo alle destre, casomai qualcuno negli angoli a noi più vicini d’Europa stesse per trasformare la vittoria di Starmer in un grimaldello dei centrismi d’ogni luogo.
La ripresa del Labour è prima di tutto l’altro versante della disastrosa débacle dei Conservatori. A capitalizzare politicamente i festini pandemici di Boris Johnson, la disastrosa meteora di Liz Truss, e infine le insoddisfazioni per il governo Sunak, c’è stato un leader che era stato scelto dai membri del suo partito con dieci promesse e che ha mantenuto solo la numero dieci: un’opposizione vincente.
I dieci tradimenti
Resta poco o nulla delle altre promesse fatte in quel 2020 da Starmer, tra le quali c’erano giustizia economica, sociale, climatica, promozione di pace e diritti, difesa dei diritti dei migranti, servizi pubblici in mani pubbliche, diritti di lavoratori e sindacati… Ad oggi il leader porta avanti una narrazione spostata a destra: dice ad esempio di voler «fermare l’immigrazione illegale» e di ridurla in generale, nonostante i problemi che il paese attraversa dopo Brexit. Sulla Brexit stessa, quattro anni fa aveva attirato le speranze degli europeisti, frustrati per l’indecisionismo di Corbyn sul tema, e invece oggi se ne esce con frasi del tipo: «Non vedremo il ritorno del Regno Unito in Ue finché io sarò in vita».
Dei servizi pubblici in mani pubbliche resta ben poco in programma, mentre la piattaforma per i lavoratori viene moderata così da non dispiacere il mondo dell’impresa. Pure i piani climatici sono stati rivisti al ribasso già da mesi: nel 2021 il partito aveva promesso di spendere 28 miliardi di sterline ogni anno per ridurre le emissioni entro il 2030 e a febbraio scorso Starmer si è rimangiato la parola e la spesa, portandola a meno di cinque miliardi annui. Sarà anche per questo che qualche elettore di sinistra deluso avrà preferito dare il suo voto ai Verdi pur sapendo che l’esito, con l’attuale sistema elettorale, sarebbe stato poco più che simbolico.
Parte dell’elettorato laburista è stata alienata da alcune prese di posizione recenti di Starmer su Gaza – la sua uscita sul diritto di Israele a tagliare l’acqua nella striscia è stata la prima grande frattura sul tema – ma è da anni che il leader porta avanti una politica che taglia fuori la sinistra del partito.
Non c’è solo la cacciata di Corbyn, che pure da leader aveva riconosciuto a Keir Starmer un ruolo, per poi essere da lui tradito; Jeremy Corbyn si è comunque candidato da indipendente. Non ci sono solo i candidati più a sinistra sfilati fino all’ultimo dalle liste. Il gesto simbolicamente più scioccante è stato l’allontanamento di Ken Loach, menestrello di lotte operaie e regista simbolo delle lotte dei lavoratori britannici. Perdere lui è per i Labour come aver perso l’anima.
La «securonomics»
Nell’immediato convincere qualche indeciso o centrista può funzionare a spostare gli equilibri: l sistema elettorale fa sì che nel collegio vinca chi va meglio (è il sistema first-past-the-post). Per capire fino a che punto Starmer abbia investito sullo spostamento al centro e sul tentativo di rassicurare un tessuto economico avvezzo a scegliere i Tories, basta prendere ad esempio questo: il Labour, e cioè il partito che ha il movimento sindacale nella sua storia fondativa, sotto la sua direzione è arrivato a dire alle grandi imprese che i propri propositi per i lavoratori avrebbero potuto in fondo essere rivisti. I laburisti sono diventati ora il partito per lavoratori e business, dunque non stupisce che gli endorsement siano arrivati da ogni parte, dal Financial Times – che non supportava il Labour da un ventennio – al Sun.
«Non c’è dubbio che Starmer abbia spostato il partito verso il centro anche dal punto di vista dei programmi economici», dice a Domani l’economista Anton Muscatelli, rettore dell’università di Glasgow. «Dal punto di vista fiscale ha fatto sue le stesse regole che hanno orientato il partito conservatore, dunque i laburisti al governo cercheranno di ridurre il rapporto debito pil». Dunque niente lotta all’austerità, che pure Starmer aveva promesso per ottenere la leadership nel 2020? «L’unica differenza rilevante rispetto ai Tories è che i Labour per gli investimenti sono disposti a prendere in prestito dei fondi».
L’Ue ha fatto qualcosa di simile con Next Generation EU, ma ciò non implica una resurrezione del welfare. Inoltre «i laburisti si troveranno a dover fare investimenti più pesanti di quanto dichiarino». Riusciranno a mantenere alta la popolarità senza intervenire sulle diseguaglianze? «Delle diseguaglianze il partito con Starmer non parla molto. Insiste piuttosto sull’idea di creare stabilità per la crescita». È stata battezzata come «la securonomics» di Rachel Reeves, cancelliere ombra dello Scacchiere che nel nuovo governo avrà in mano l’economia. Sicuri per quanto, e chi?
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