Non si tratta più di preservare la stabilità finanziaria dei conti pubblici, il moloch dell’ordoliberalismo tedesco, ma di trovare la strada di politiche di crescita e di favorire la creazione di un’unione fiscale sostenuta da un debito comune comunitario
Mario Draghi si è dato indirettamente, dopo la pubblicazione del report sul futuro della competitività europea, una nuova missione: salvare la Germania (e il modello sociale europeo) dal declino. Non si tratta più di preservare la stabilità finanziaria dei conti pubblici, il moloch dell’ordoliberalismo tedesco, ma di trovare la strada di politiche di crescita e di favorire la creazione di un’unione fiscale sostenuta da un debito comune comunitario.
Non è la prima volta che l’ex banchiere centrale, allievo del keynesiano Federico Caffè, corre in soccorso dell’Europa in difficoltà. Il primo discorso per salvare l’euro Draghi lo tenne a Londra il 26 luglio 2012, in piena crisi dei debiti sovrani europei e la Grecia rischiava di essere spinta fuori dal club dell’eurozona dall’ex ministro delle Finanze tedesco, il falco Wolfgang Schaeuble, come monito per gli altri partner che si opponevano all’austerità: poi è stata la volta di un’intervista data il 30 settembre 2019 al Financial Times, alla fine del mandato del banchiere centrale ed era tempo di bilanci e nuove sfide da lasciare a Christine Lagarde.
Il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi in quella occasione definì «indispensabile» un’unione di bilancio tra gli stati membri della zona euro per sostenere il futuro a lungo termine della moneta unica.
«Per avere un’Uem (unione economica e monetaria) più forte, abbiamo bisogno di un bilancio comune della zona euro», disse Draghi sempre nell’intervista al FT, definendo «indispensabile» un’unione fiscale. Draghi aveva espresso parole di ottimismo perché l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti dell’integrazione economica era a suo giudizio cambiato dopo la crisi greca.
«Molte più persone capiscono l’importanza di queste riforme rispetto a qualche anno fa», aveva osservato, «e a un certo punto ci sarà un impegno». Insomma la politica monetaria non basta da sola occorre che i paesi (la Germania in primis ma non venne citata espressamente da Draghi) che hanno margini di manovra di bilancio facciano investimenti.
La svolta rooseveltiana
Ecco il punto. Ora si tratta di tornare in Europa a un clima rooseveltiano con un nuovo New Deal di investimenti pubblici per salvare la Germania dalla recessione e quindi l’Unione europea (e il suo modello sociale). I falchi tedeschi sono sulla difensiva, ma la partita per l’egemonia culturale sulle politiche economiche, come si è visto con lo scioglimento anticipato del governo Scholz a causa dei liberali di Christian Lindner che si opponevano a spese pubbliche a sostengo della ripresa, stanno ad indicare che la battaglia sulla austerità non è ancora finita.
La crescita europea è sostanzialmente in mano ai destini tedeschi e ai futuri risultati elettorali: l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione è stato un errore drammatico. Basti pensare, che la Svizzera, oasi di stabilità finanziaria, non ha mai accettato questo limite nella Carta costituzionale. Al contrario fare debito in fase di declino economico è una scelta saggia, a condizione che il debito non diventi strutturale.
Non a caso Draghi ha parlato di un debito buono e di uno cattivo, indicando che la parola debito deve essere svuotata dal significato negativo che i monetaristi alla Milton Friedman e dei Chigago Boys hanno voluto inserire in modo permanente per lasciare spazio a fantomatiche “mani invisibili” del mercato che quando le cose vanno male spariscono dall’orizzonte.
Nel suo report sulla competitività Mario Draghi è tornato a mettere l’accento sui freni strutturali che in questi ultimi decenni hanno spento la competitività europea: il ritardo nella capacità di innovazione, gli alti prezzi dell’energia, la lentezza del processo di digitalizzazione. Un esempio: «Solo quattro delle 50 aziende tecnologiche più importanti al mondo sono europee».
«Per digitalizzare e decarbonizzare l’economia e aumentare la nostra capacità di difesa, la quota di investimenti in Europa dovrà aumentare di circa 5 punti percentuali del Pil, fino a raggiungere i livelli visti negli anni Sessanta e Settanta», scrive Draghi. E chi può sostenere queste spese se non la Germania? Ecco perché l’ultima missione dell’ex banchiere centrale è salvare Berlino dagli effetti recessivi delle politiche di austerità e con questo preservare il modello sociale europeo.
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