La curiosità è stata per secoli il motore del progresso umano, eppure proprio adesso che osare troppo sembra una follia, una parte della politica dovrebbe essere chiamata a riscoprirla
A una settimana dal voto europeo, è ancora presto per affermare con certezza quali assetti e direzioni prenderà la nuova amministrazione dell’Unione. Una cosa, tuttavia, è già chiara: chiunque siederà al suo vertice dovrà dare risposta alla grande aspettativa di cambiamento espressa da milioni di elettori desiderosi di una politica continentale radicalmente diversa.
La speranza condivisa — anche se declinata in valori, identità e progetti politici alternativi — è che l’Ue possa “trasgredire” se stessa, nel senso etimologico della parola: “andare oltre” le scelte e le condotte tracciate negli ultimi due decenni. Identità e ruolo dell’Europa sono divenuti così opachi e ambigui che non stupisce che il “desiderio trasgressivo” venga espresso tanto dalle forze più progressiste quanto da quelle conservatrici.
Se entrambe le culture politiche sentono la medesima necessità di rispondere alla richiesta di rinnovamento, allora vale la pena chiedersi cosa ancora le distingue. Intuitivamente, si può dire che i conservatori perseguono un’idea di cambiamento intenta a preservare e rafforzare, un ordine sociale, identitario e valoriale chiaro: uno spazio culturalmente ben delimitato, entro il quale poter costruire il proprio programma.
Per i progressisti il rischio peggiore per la società è invece l’immobilità: l’umanità deve costantemente rinnovarsi, talvolta anche in modo doloroso, di fronte ai continui mutamenti del mondo e al fine di un complessivo e assiduo miglioramento sociale.
Un concetto dimenticato
Le definizioni teoriche tendono, tuttavia, a sfumare quando il prolungarsi dell’urgenza storica e sistemica in cui verte l’Unione spinge ogni forza politica ad agire oltre i propri schemi ideologici. Allora forse, per rimarcare la differenza, può essere utile fare riferimento a un concetto antico, ma quantomai attuale: la curiosità.
Un termine oggi considerato per lo più positivo: in fondo, essa è ciò che ci distingue dalle mucche e da qualsiasi altro ruminante restio ad esplorare il mondo al di là del proprio pascolo, almeno finché questo non prende fuoco o smette di dare foraggio.
Per buona parte della nostra storia, tuttavia, l’espressione non è stata necessariamente sinonimo di virtù: per Apuleio, la curiositas trasforma gli uomini in asini, mentre, per Sant’Agostino è una forma di superbia contraria all’intelligenza umana. Poi arriva Dante che condanna all’inferno Ulisse, l’eroe curioso per eccellenza, ma celebra il suo desiderio di conoscenza con un canto così potente che consacra la curiositas come motore del progresso umano.
In un tempo presente di grande incertezza, pensare di affidarsi alla curiosità come bussola politica sembra tuttavia un atto suicida: andare verso il progresso non è mai stata una passeggiata di salute e, oggi più che mai, ci pare impossibile uscire dalla sicurezza del nostro praticello per la sola voglia di vedere che cosa ci sia oltre.
Se è vero che non possiamo rimanere immobili di fronte agli stravolgimenti globali, sembrerebbe dunque sensato applicare le stesse regole del regno animale, abbandonando la curiositas e agendo in base alla necessitas, ovvero cambiando solo quel tanto che serve ad assicurarci la nostra sopravvivenza. Per i conservatori si tratterebbe di un passo in più, per i progressisti di uno in meno: un compromesso all’apparenza accettabile per rimanere vivi.
Tra ideali e concretezza
Oppure no? In fondo, la nostra civiltà trae la sua fortuna proprio dalla dialettica tra ideali e concretezza e qualcuno dovrà pur portare avanti l’energia creativa della curiositas come tratto distintivo della propria politica.
Le forze che si rifanno alla cultura progressista sono quelle che, per definizione e tradizione, dovrebbero essere capaci di immaginare il “nuovo”, al di là del senso di urgenza e di pericolo: sentimenti autentici, ma che, se presi da soli, rischiano di rimanere limitanti e generativi di una percezione di soffocante impotenza ancora prima di affrontare i problemi.
Per quanto i tempi ci sembrino estremi, almeno una parte della politica avrebbe il dovere di riconoscere che il momento di incertezza che stiamo vivendo è solo uno dei tanti nella storia umana e che, per tirarci fuori dai guai, è stato sempre più utile lo sguardo verso l’infinito di Ulisse che quello della mucca sul prato vicino.
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