Il 3 febbraio prossimo i leader dell’Unione europea si riuniscono a Bruxelles per una “clausura” informale – la prima dopo l’avvio del nuovo ciclo istituzionale – interamente dedicata alle questioni della difesa. Alla riunione, convocata dal presidente del Consiglio europeo Antonio Costa, sono stati invitati anche il segretario generale della Nato Mark Rutte e (per la prima volta dopo Brexit) il premier britannico Keir Starmer.

Si parlerà di Ucraina, di Medio Oriente e, soprattutto, di Donald Trump, vero convitato di pietra del vertice. I 33 partecipanti alla discussione (i leader dei 27, i due invitati e il quadrumvirato Ue composto da Costa, Ursula von der Leyen, Roberta Metsola e Kaja Kallas) avranno un’agenda tanto fitta quanto delicata, fra conflitti in corso, decisioni comuni da impostare e coordinare, e risposte da dare alle prime esternazioni del neo/ri-eletto presidente americano. Può quindi essere utile “spacchettarla” per un attimo – pur senza perdere di vista il quadro d’insieme – anche per capire meglio le opzioni sul tavolo.

La guerra in Ucraina

La guerra in Ucraina rappresenta ancora la sfida e la minaccia principale per la sicurezza e difesa dell’Europa: al di là delle eventuali misure da adottare nelle prossime settimane (dagli aiuti macroeconomici a Kiev a nuove sanzioni contro Mosca, fino all’apertura dei primi capitoli negoziali per la possibile futura adesione dell’Ucraina all’Ue), il confronto fra i leader sarà soprattutto centrato su che fare in prospettiva, soprattutto nell’eventualità – ancora remota, ma non più da escludere – di un cessate il fuoco fra le parti.

Se i contorni del possibile armistizio sono ancora incerti, i rischi a cui si trova di fronte l’Europa sono essenzialmente due: il primo, anche in ordine di tempo, è quello di un’esclusione di fatto dall’eventuale tavolo negoziale; e il secondo è quello di trovarsi poi a gestire in prima linea (letteralmente) le conseguenze del cessate il fuoco.

L’ambizione di Trump di porre fine al conflitto con una sua iniziativa diplomatica e la determinazione di Vladimir Putin di negoziare soltanto con gli Stati Uniti metterebbero infatti sia Bruxelles sia, ovviamente, la stessa Kiev in una situazione di grande debolezza politica e strategica, vista anche la crescente propensione di Washington (amministrazione e Congresso) a disimpegnarsi dal teatro europeo.

Perfino la futura ricostruzione economica e sociale dell’Ucraina indipendente non potrà infatti procedere senza una qualche stabilizzazione dei confini e garanzia di protezione esterna, ed è facile immaginare che saranno soprattutto gli europei a doversi impegnare su entrambi i fronti.

Non è del resto un segreto che, nelle scorse settimane, siano stati avviati (molto sottovoce) i primi pourparler fra alcuni leader europei sulla possibilità di assemblare una forza multinazionale da schierare a fianco delle forze ucraine all’indomani dell’armistizio per garantirne la tenuta e dissuadere Mosca da nuove aggressioni. Si tratta evidentemente di uno scenario ancora lontano – e forse improbabile, anche alla luce dell’attuale incertezza politica in alcune capitali – ma che rende bene la portata delle sfide a cui si potranno trovare di fronte gli europei.

Le spese per la difesa

L’altra grande questione all’ordine del giorno del summit riguarderà la spesa per la difesa. Da quando la Russia ha invaso (per la seconda volta) l’Ucraina, i paesi Ue hanno aumentato del 30 per cento i loro bilanci militari nazionali e lanciato alcuni limitati programmi di sostegno alla produzione di armamenti anche a livello comunitario.

L’anno scorso, inoltre, 22 degli alleati europei nella Nato hanno raggiunto il target del 2 per cento del Pil (fissato nel 2014 per, appunto, il 2024): all’appello mancano però ancora – in ordine di importanza – Italia, Spagna, Portogallo e Belgio.

Nelle sue prime esternazioni dalla Casa Bianca, Donald Trump ha addirittura auspicato un nuovo target attorno al 5 per cento (che peraltro nemmeno Washington riuscirebbe a rispettare). Per parte sua, Mark Rutte ha alluso a un aumento fino al 3 per cento – entro il 2030 – che sarebbe anche coerente con gli obiettivi di capacità adottati dall’Alleanza poco più di un anno fa, e in linea sia con la media di spesa del periodo della guerra fredda che con i trend in atto a livello mondiale.

Si tratta di cifre importanti ma non impossibili, soprattutto se si pensa all’effetto anti-congiunturale “keynesiano” che maggiori investimenti pubblici potrebbero innescare nelle stagnanti economie del continente. L’industria europea della difesa, fra l’altro, è piuttosto competitiva su scala globale, con Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Spagna e Svezia fra le top ten dell’export mondiale nonostante la prolungata contrazione degli investimenti e la frammentazione dei mercati su scala continentale.

In questo contesto, la sfida consiste non solo nel quanto si può o si deve spendere sulla difesa – tenendo anche conto che nuovi investimenti produrranno nuove capacità solo fra qualche anno – ma anche nel come, in modo da far sì che le crescenti risorse destinate al settore (a livello nazionale, intergovernativo, e ora anche comunitario) generino più della somma delle loro parti, facendo leva sul mercato unico e sulle supply chain ed economie di scala che ne risulterebbero.

La chiave è insomma rappresentata dalla futura disponibilità degli europei a investire e ad acquistare congiuntamente e non separatamente, sulla falsariga di quanto fatto negli ultimi anni prima con i vaccini e poi con il gas.

E qui l’Ue potrebbe davvero fare la differenza, soprattutto se coinvolgerà anche norvegesi e soprattutto britannici, se promuoverà una standardizzazione dei prodotti compatibile con le specifiche Nato (favorendo così complementarietà e sinergie), e se destinerà alla cooperazione industriale transnazionale incentivi adeguati.

Il “libro bianco” sulla difesa che la Commissione dovrebbe rendere pubblico in marzo dovrebbe appunto offrire proposte più dettagliate sulle soluzioni amministrative e finanziarie che potrebbero facilitare una vera “surge“ dell’industria europea della difesa, sulla scia di alcune indicazioni offerte già l’anno scorso nei Rapporti preparati per l’Unione da Enrico Letta (sul mercato unico) e Mario Draghi (sulla competitività).

L’obiettivo non sarebbe tanto quello di puntare a una improbabile (e mai ben definita) “autonomia strategica” dell’Ue quanto a una maggiore autonomia operativa degli europei, con risorse e capacità più adeguate a far fronte ai rischi e alle minacce di questo scorcio del XXI secolo.

Gestire Trump con un mix di pragmatismo e fermezza, anche di fronte a provocazioni come quelle sulla Groenlandia; salvaguardare la Nato (una Nato prevedibilmente più europea e meno americana) come indispensabile deterrente «di ultima istanza» – per dirla ancora con Keynes – di fronte a Putin e compagnia; e mettere in comune (almeno fra i partner interessati a farlo) forze, mezzi e risorse che nessun paese del continente può da solo mobilitare: potrebbero diventare queste le tre principali linee-guida per i leader che si accingono ad avviare un confronto destinato a durare ben oltre la “clausura” di un solo giorno.

Il ruolo dell’Italia

In questo confronto, l’Italia potrà sì far valere le sue credenziali atlantiche (prima in Afghanistan poi nella protezione dei fianco orientale), il suo ruolo strategico nel Mediterraneo “allargato” e le sue risorse industriali (fra grandi gruppi e piccole e medie imprese), ma dovrà anche rendersi molto più credibile sul fronte della spesa militare, in termini sia di quantità (bilancio) che di qualità (investimenti): una sfida, questa, che riguarda sia la maggioranza sia le opposizioni, e sulla quale solo un impegno e un consenso bipartisan potranno garantire la credibilità e la durata necessarie.


Antonio Missiroli è stato consigliere alla Commissione europea, direttore dell’Istituto di studi per la sicurezza dell’Ue, e segretario generale aggiunto della Nato. Ha insegnato a Sciences Po, al Collegio d’Europa di Bruges, a SAIS Europe e alla Scuola Superiore Sant’Anna.

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