È l’anno di Giacomo Matteotti. Nelle librerie, in occasione del centenario della sua morte violenta e per effetto di un clima politico pieno di ombre nerastre che vengono dal passato novecentesco, sono arrivati molti volumi dedicati al martire socialista vittima della violenza fascista.

Non sono uno storico di professione e con curiosità ho letto il volume che Laterza, per la penna di Fabio Fiore, ha dedicato al grande deputato antifascista (L’affaire Matteotti. Storia di un delitto). Nelle pagine del libro, con una scrittura felice e misuratissima e senza nascondere l’esistenza di diverse interpretazioni storiografiche, è raccontato l’omicidio, illustrate le sue premesse, indicati i moventi e i mandanti, spiegate le conseguenze di quel tragico evento.

Irriducibile parresiasta

Ad avermi affascinato in modo particolare è l’ultimo capitolo del libro, quello dedicato a delineare la figura dell’uomo e del politico Matteotti, degno di essere ammirato non solo per essere stato la vittima più illustre dello squadrismo nero.

Infatti, prima di tutto Matteotti era, lo scrive Fiore riprendendo una nota riflessione di Michel Foucault, un irriducibile parresiasta, una persona innamorata della verità e capace di pronunciarla ad alta voce di fronte ai potenti a costo di mettere in pericolo la sua vita. Il parresiasta parla per conto del popolo oppresso da un governo ingiusto, ma è anche inevitabilmente una figura solitaria ed eroica.

È colui che ha il coraggio di fare quello che gli altri, tutti o quasi tutti, non hanno il coraggio di fare, di testimoniare l’amore per la giustizia sfidando a viso aperto il tiranno usurpatore. Questo merito gli verrà riconosciuto solo quando la libertà verrà riconquistata.

L’ossessione per le carte

Va anche detto che le verità di Matteotti non erano ideologiche o fumose. Matteotti non era un parolaio, ma un uomo politico responsabile e serio, con l’ossessione dei documenti, dello studio, preparato e competente, un primo della classe, uno studioso, un uomo pragmatico sempre piegato sulle carte per comprenderle, interpretarle e usarle come strumento di lotta politica.

Matteotti era anche un uomo pacifico, in questo senso (come in altri) esattamente l’opposto dei sicari che lo accopparono e dei loro mandanti. Già qualche anno prima di essere assassinato era stato oggetto di una feroce e umiliante violenza fascista a cui aveva reagito con la virtù dei forti, con l’animo di chi sa continuare sulla propria via rinunciando alla vendetta così come alla rassegnazione, a darla vinta ai violenti.

Infine Matteotti, così ce lo descrive Fiore, era un socialista strenuamente convinto che il partito socialista dovesse mantenere un assetto unitario, in grado di comprendere al suo interno l’ala più radicale così come quella più moderata.

Per non ridursi a diventare una setta dove c’è sempre qualche puro, su un versante o sull’altro, che non vede l’ora di stilare liste di epurazione, di far fuori gli avversari interni, senza comprendere che la forza dei grandi partiti di sinistra (si pensi al Labour che si appresta a trionfare nelle elezioni britanniche) è quella di tenere insieme il pragmatismo dei riformisti e l’idealismo dei radicali.

L’Italia migliore

Il libro di Fiore si conclude con un interrogativo affascinante: cosa sarebbe successo se quel mondo di cooperative, società di mutuo soccorso, leghe sindacali, case del popolo non fosse stato, cent’anni fa, spazzato via da quella violenza fascista che ancora oggi seduce tanti giovani di destra? Avremmo un paese migliore, suggerisce Fiore, se a quel mondo «non fosse stato prematuramente impedito di vivere».

Non so se l’autore dell’affaire Matteotti abbia ragione o meno, se l’ipotesi regga. Quel che mi pare certo è che quella fosse l’Italia migliore e che la sinistra di oggi abbia, nel nome ma anche nei valori di Matteotti, quelli che in parte ho menzionato, il dovere morale di tenere in vita, certo rinnovandola e aggiornandola, quella straordinaria tradizione culturale e politica. Senza radici non c’è vita, nemmeno in politica.


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