Le polemiche sulle spese militari e il Jobs act per prendere voti al M5s. L’ala moderata del partito non apprezza. I rischi di una soglia al 3 per cento. Se il Pd va peggio del 2019 sono guai
La segretaria Pd Elly Schlein vola a Parigi dove incontra il circolo dem della capitale, la sindaca Anne Hidalgo (in questo caso si fa accompagnare dal sindaco di Bologna Matteo Lepore) e infine il segretario del Partito socialista Olivier Faure. Con cui, spiega in serata, si confronta sulle europee, ovvero «sulle sfide comuni che ci attendono: le battaglie per la giustizia sociale, per un lavoro più dignitoso ed equo e il contrasto all’emergenza climatica, che le forze socialiste e democratiche europee devono saper tenere insieme».
In teoria l’esperienza socialista francese, che alle presidenziali si è aggregata alla coalizione Nupes (Nuova unione popolare ecologista e sociale) e ha sostenuto Jean-Luc Mélenchon, per i democratici italiani non dovrebbe essere un’ispirazione politica. Anzi, per il Pd la «sindrome francese» è stata a lungo lo spettro da scongiurare: ovvero il rischio di perdere consensi causa la sfida a tenaglia da parte del centro di Emmanuel Macron e dall’altra della sinistra di France insoumise. È vero che oggi il presidente francese è in crisi di consenso interno. E che il Pd è al riparo dal destino del partito fratello d’oltralpe. Ma è davvero così?
Ieri un sondaggio di Swg, per la prima volta, ha segnalato un’impercettibile flessione di Fratelli d’Italia in allontanamento dalla soglia “psicologica” del 30 per cento (dal 29,4 di fine luglio al 28,2 del 4 settembre). Non è un’indicazione da prendere troppo sul serio, per il Nazareno. Da prendere più sul serio invece il dato del Pd, in crescita di un decimale ma inchiodato al 20 per cento. Non è un bel segnale per una segretaria che deve superare bene non certo il 40 per cento che fu di Matteo Renzi nel 2014 ma almeno il 22,7 di Nicola Zingaretti nel 2019. Un risultato che fin qui dal Nazareno è stato considerato a portata di mano.
La via crucis delle regionali
Il 9 giugno 2024, giorno del voto europeo, oggi sembra lontano. Ma la strada è costellata di appuntamenti amministrativi che possono trasformarsi in una via crucis. Per esempio fra febbraio e marzo andranno al voto Sardegna, Abruzzo e Basilicata: regioni governate dalla destra, compatta e pronta a ricandidare gli uscenti (unico dubbio nell’isola, dove balla il presidente Christian Solinas).
Quanto al dossier liste per Bruxelles, nel Pd ufficialmente non è stato ancora aperto. Ufficiosamente sì, e non bene. L’ipotesi di scegliere solo capoliste donne è presto tramontata: comunque non era originale, l’aveva già fatto Renzi. Domenica scorsa è arrivato il “gran rifiuto” di Lucia Annunziata, la popolare conduttrice tv che alla vigilia dell’estate si è dimessa dalla Rai contro «l’operato dell’attuale governo»: della sua candidatura si è parlato molto sui media, e aveva tutto il favore della segretaria. Che però evidentemente non ha saputo convincerla. Domenica la giornalista, stanca di essere tirata in ballo dai giornali della destra, ha chiuso bruscamente la questione: «Non mi candiderò mai è poi mai alle europee. Né con il Pd né con nessun altro partito». Infine Zingaretti, due volte presidente della regione Lazio, anche lui tirato in ballo come candidato forte al centro, ha assicurato di non aver alcuna intenzione di correre.
Piccole scosse, fisiologiche, a dieci mesi dal voto, quando ancora la comunicazione social e tv di partito scommette tutto sul traino della segretaria. E quando manca anche il “canovaccio” di un confronto sulle liste. Ma al sismografo interno si rilevano altre scossette. Matteo Renzi ha lanciato la corsa del suo “Centro” con cui cercherà di attrarre anche i riformisti Pd. Dal Pd circola l’idea di offrire un accordo ad Azione di Carlo Calenda, nella speranza di rafforzare l’offerta centrista; ipotesi irreale, ma irritante per i centristi della casa.
Altra scossetta: fra i rossoverdi e FdI c’è un filo di dialogo sull’abbassamento della soglia delle europee dal 4 per cento al 3 per cento. Un aiutino ai “piccoli” dell’opposizione in bilico sulla soglia, da Iv a Azione, a +Europa e all’alleanza verdi-sinistra. Ma anche un dito nell’occhio del Pd, che si vede asfaltare la propaganda del “voto utile”, peraltro inascoltabile quando in ballo c’è solo la rappresentanza proporzionale. Iv e Azione ostentano indifferenza per il provvedimento (a cui sono contrari Lega e Forza Italia). Ma per calcolo, ha spiegato una dirigente renziana a un collega deputato: «Lasciamolo fare alla destra».
Confusi a sinistra
Fin qui le cose che danno pensiero alla segretaria. Invece la minoranza riformista è preoccupata per certi movimenti (considerati) confusi di Schlein. Dopo il gol unitario sul salario minimo, che ha messo in difficoltà il governo, la segretaria ha invece “bucato” i media con quelle che vengono valutate vaghezze radicali: come il rallentamento del raggiungimento del 2 per cento del Pil per le spese militari. E anche l’incauta adesione a un inesistente referendum contro il Jobs act proposto dalla Cgil di Maurizio Landini (neanche proposto, giusto ipotizzato). All’ultima riunione di segreteria Schlein ha chiarito che si trattava di un sì ideale, generico. Ma la sensazione che ha dato è di procedere a strappi, magari strappetti, per competere a sinistra con rossoverdi e M5s. E il lato moderato chi lo copre? Attualmente lo copre Stefano Bonaccini, il presidente dell’Emilia-Romagna, e del Pd, che interviene a tamburo battente contro il governo e sulle questioni di attualità (compreso il no al referendum cigiellino). L’effetto oggettivo è un attacco a due punte. Quello involontario, o certamente non voluto da Schlein, è che il leader del correntone di minoranza, sconfitto alle primarie e scontento della direzione del partito, cresce in presenza e autorevolezza. Sarebbe un segno di salute per il Pd: ma solo a patto che alle primarie la segretaria faccia un risultato pieno.
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