Il presidente dei senatori dem: «Meloni ha tentato un accordo con von der Leyen. Ma poi il Pd è diventato la prima delegazione di S&D. E ha fatto saltare quel tavolo». «Se avremo un ruolo di peso nella Commissione festeggeremo. Ma l’italia nl’ha sempre avuto. E se ottiene mezza delega in più, la premier non ci venga a spiegare che ha vinto lei»
No, giura Francesco Boccia, il Pd sa che la sinistra italiana, per costruire la sua coalizione, il suo fronte popolare, la sua convergenza, deve cercare una sua strada. Ma non si può negare che le vittorie in Francia, e prima di Keir Starmer in Gran Bretagna, e ancora prima di Pedro Sánchez in Spagna, abbiano dato una scossa, l’idea che il nazionalismo in Europa non ha vinto.
Ma secondo la premier nessuno può «cantare vittoria». «Una dichiarazione grottesca» spiega il presidente dei senatori Pd, «dare parallelismi tra la situazione francese e quella italiana non ha molto senso. Ma Meloni almeno prenda atto che la Francia ha detto no a Le Pen».
«In Francia è risalita la partecipazione al voto, mezzo paese ha fermato la destra. E fra il primo e il secondo turno è successo un fatto politico, i ragazzi che hanno esultato in Place de la République, che avessero votato per Mélenchon, per i socialisti o per Macron, hanno detto no all’onda nera: non vogliono il nazionalismo aggressivo».
In poche ore lì si è unito un fronte di sinistra plurale, poi la desistenza con i macroniani. In Italia c’è una sinistra così pronta e “adulta”?
Noi in Italia il disastro l’abbiamo già fatto, Meloni è già presidente del Consiglio. Dopo la caduta del governo Draghi, i leader di quella fase storica non hanno avuto la forza e il coraggio di costruire un fronte comune contro la destra che avanzava. L’insegnamento di oggi è che quando i progressisti sono uniti, le destre si arginano. Ci si unisce su un’idea di società. “Per”, non “contro”. La proposta della destra, in tutte le sfumature di nero nei diversi paesi, è una società dell’esclusione, che alimenta lo scontro con tutti quelli che hanno una visione differente. La sfida dei progressisti è la convivenza in una società che distingue in base ai bisogni, non al colore di pelle. Sánchez in Spagna ha battuto la destra con una proposta progressista che incide sulla sanità, sul lavoro, sull’ambiente. In Gran Bretagna, dopo i disastri dei Tory, è bastata una proposta di sinistra, anche moderata, per mandarli ha casa. La destra avanza nelle ali della società, ma per fermarla serve più sinistra, una sinistra contemporanea.
Serve anche più coraggio? Sánchez e Macron hanno fatto scelte rischiose. Invece il Pd, in ogni momento di crisi, ha fatto l’opposto.
Ora c’è un nuovo Pd. Io sono fra quelli che hanno imparato la lezione, e dico «mai più». La scelta di appoggiare il governo Monti, a noi è costata una leadership vera, di sinistra, quella di Bersani. Pier Luigi non lo dirà mai, ma fu tutto il gruppo dirigente a scegliere la strada di Monti. In buona fede: c’era lo spread alto, eravamo terrorizzati per la vicenda greca. Ma l’effetto fu l’exploit del M5s, un messaggio evidente anche per noi. Da lì si è accelerato lo scollamento tra periferie, popolo ed élite, che poi a loro volta sono diventate sempre più autoreferenziali. Quando un grande partito popolare e di sinistra non riesce più a essere la cerniera tra i luoghi dei bisogni e le istituzioni, e si trasforma in partito dell’establishment, perde l’anima, la credibilità e il consenso. Nella storia del Pd è successo due volte e abbiamo pagato un prezzo alto. Con il governo Monti e dopo il governo Draghi. Oggi non sarebbe possibile, il Pd di oggi chiederebbe il voto.
C’è uno schieramento ampio che sostiene il referendum contro l’autonomia differenziata. È il primo nucleo della nuova alleanza?
È lo schieramento per il referendum. Quelli che hanno firmato il quesito erano a piazza Santi Apostoli il giorno del voto dell’autonomia alla Camera: dal 2006 non vedevo una piazza così. C’erano tutti, partiti, sindacati, associazioni. Lì abbiamo preso l’impegno che avremmo fatto il possibile per fermare questa legge. Raccoglieremo le firme, le regioni governate dal centrosinistra stanno deliberando la loro richiesta. Aspettiamo anche quelle di destra del Sud.
Calenda è contro l’autonomia, ma non è d’accordo con la scelta del referendum: dice che si perderà e sarà un regalo a Meloni. In effetti il quorum sembra irraggiungibile.
Dunque dovremmo fare solo battaglie che siamo sicuri di vincere? Il Pd da un anno e mezzo a questa parte fa il contrario di quello che dicono i sondaggisti, e va bene. Penso che Calenda non abbia ancora colto l’importanza di fare battaglie che cambiano il profilo culturale dell’intera coalizione. Il Pd ha fatto questa riflessione nell’ultimo congresso. Siamo agli inizi, ma queste battaglie avvicinano buona parte di quelli che non credono più alla politica. E comunque Azione in parlamento si è astenuta perché ha nel suo partito Maria Stella Gelmini, favorevole al ddl Calderoli. Ma alla fine in questa battaglia gli elettori di Calenda ci saranno.
Poi arriverà nello schieramento?
Non lo so. Ma quando ci si ritrova in una battaglia comune sulla sanità pubblica, sul lavoro, sul salario, sull’ambiente, sulla difesa della Costituzione, le cose vengono da sé. Sul premierato all’inizio Renzi proponeva il sindaco d’Italia. Ora è con tutti noi.
Quindi arriverà anche Renzi?
Per ora parliamo del referendum. Per governare il paese ci sarà un programma. Mi auguro che dopo le europee gli altri partiti di opposizione, tutti, capiscano una volta per tutte che l’avversario è la destra. Per un anno e mezzo Iv, Azione e M5s avevano l’ossessione dell’implosione del Pd. Con la guida di Schlein il Pd non implode, anzi diventa l’argine su cui costruire l’alternativa alle destre.
Lei diceva «serve più sinistra». C’è chi pensa che un Pd troppo “di sinistra” non funziona.
Chi ragiona ancora così ha gli occhi dietro la nuca. Poniamo al centro i diritti sociali, civili, economici e umani, la difesa del pianeta, il fatto che lo sviluppo sostenibile è più conveniente. Ragionare in termini di “un po’ più di centro o un po’ più di sinistra” è fuori tempo. La sinistra contemporanea e aperta, che Elly rappresenta, parla alle nuove generazioni.
D’accordo, ma in una coalizione serve anche una gamba moderata. Chi la organizzerà?
Non è nostro compito deciderlo. Le porte sono apertissime a chi condivide i nostri valori. Noi veti non ne mettiamo. E non ne accettiamo. Gli elettori ci hanno premiato dove eravamo uniti. E dove c’era il secondo turno, il Pd ha vinto anche per gli altri.
Il premierato è alla Camera. Meloni si è resa conto che la sua riforma rischia di essere spazzata da un referendum, stavolta senza quorum?
Secondo me sì. E non avrà il coraggio di sottoporsi al referendum prima delle elezioni politiche. Farà scivolare il voto al passaggio successivo alla scadenza del 2027, un po’ come fece Berlusconi sulla riforma della devoluzione nel 2006. Berlusconi lo fece slittare perché temeva che gli facesse perdere le elezioni, che poi perse. Allora cara Meloni, se credi alla tua riforma, abbi il coraggio di farla votare prima delle politiche. Nel frattempo, però, non puoi andare avanti a colpi di decreti.
Non è il primo governo che lo fa.
Ma questo ha già battuto tutti i record. Il decreto sulle liste d’attesa doveva risolvere un grave problema della sanità pubblica. Si è trasformato nel ring dove si combattono Lega e FdI. Arriverà l’ennesima fiducia, su un provvedimento su cui il governo ha negato il confronto con le opposizioni e con le regioni, che infatti sono contro, perché riporta allo stato regole e controlli. È paradossale: da una parte impongono l’autonomia differenziata, dall’altra tolgono poteri alle regioni in materia di sanità. Ora la Lega fa opposizione, e la maggioranza finisce nel caos.
Che scommette Meloni in Europa?
In questi due anni ha fatto più il capo partito che la presidente del Consiglio. Ha continuato ad alimentare la parte del paese che l’ha votata nel 2022, forse perché sa che quella parte non è maggioritaria. Nei primi mesi di governo temevamo facesse una svolta “europeista”, ci avrebbe messo in difficoltà. In Europa faceva la “statista”, in Italia alimentava i postfascisti nei suoi vivai, come ha visto tutta l’Europa. Invece anche in Europa ha fatto il capo di un partito di destra. Ha tentato un accordo con von der Leyen, con la mediazione di Tajani. Ma poi il Pd è diventato la prima delegazione di S&D. E ha fatto saltare quel tavolo. Se anche qualcuno fra i partiti socialisti del nord Europa, per quieto vivere, avrebbe chiuso un occhio su un accordo di qualche genere con Meloni, dal 9 giugno non è stato più possibile. Saltato il giochino, si è ritrovata quello che è: una leader della destra, che compete solo a destra.
L’Italia otterrà un commissario con un portafoglio di peso?
Spero di sì, e non potrà che essere uno scelto fra i ministri Fitto, Giorgetti e Crosetto, altri che possano rappresentare l’Italia non ne vedo. Per noi l’importante era tenere Meloni fuori dagli accordi sul programma della Commissione perché su ambiente, difesa comune, welfare e debito la pensa in maniera opposta alla nostra. L’Italia è un paese fondatore, va da sé che avrà una delega importante. Se sarà, festeggeremo. Ma ricordiamo che l’Italia ha avuto commissari come Monti e Bonino, anche nominati da Berlusconi, e un presidente come Prodi, e del parlamento come Tajani e un gigante come Sassoli. L’Italia non stava aspettando Meloni per avere un ruolo. E se ottiene mezza delega in più, non ci venga a spiegare che ha vinto lei.
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